I nuovi arbitri della parola

 Ferdinando Longobardi

 Ai giorni nostri sempre di più si sta rivelando decisivo il ruolo di chi, nelle trasmissioni televisive, dà la parola agli altri e crea il ragionamento televisivo, organizzando la scaletta e la sintassi dei vari interventi e dei contributi audiovisivi.  Al personaggio mediatore televisivo, dal grande anchorman delle reti Rai ai conduttori delle nostre reti locali (veri medium in tutti i sensi) è d’altra parte affidato il ruolo importante, e non di rado ingombrante, di stimolare una buona visibilità, di far sì cioè che la sfera individuale e la relativa presentazione di casi, affidandosi al mezzo di massa, trovi e inventi un contesto, una risonanza pubblica e di utilità sociale senza perdere i caratteri della propria originalità e, nello stesso tempo, senza essere violata nella sua intimità. Il conduttore televisivo, colui che parla con le persone presenti in studio, si trasforma, dunque, necessariamente in un personaggio polimorfo, un portavoce sia della collettività che è in ascolto sia dei sentimenti del proprio interlocutore, ma anche un provocatore che tenta di far avvicinare sempre di più i propri ospiti e i proprio spettatori ai limiti invalicabili preventivamente tracciati dai contenuti del discorso che egli stesso ha preso in carico. Il suo compito di alfabetizzatore dei sentimenti e delle opinioni può diventare, pericolosamente, un ruolo manipolatore, soprattutto se egli vorrà attribuire un qualche piano razionale al discorso di chi è invitato a parlare, il quale discorre anche in modo sconnesso, magari poco coerente, ma sicuramente autentico. Di qui la fortuna di un conduttore televisivo, nuovo principe del foro catodico, che ammicchi, alluda, dissenta scetticamente, insinui con humor, rispetto a chi invece voglia, sempre e comunque, argomentare, dimostrare, persuadere; la ragione del successo d’ascolto dipende anche da una adeguata scelta del registro discorsivo: a volte dunque, è questione di metodo, di stile, più che di contenuti.