Napoli e la Fiat

Angelo Cennamo

La protesta degli abitanti di Terzigno per la riapertura della discarica di cava Vitiello si è trasformata in una vera e propria guerriglia. Le immagini rimbalzate sui tg di tutto il mondo ci mostrano scontri con le forze dell’ordine, autocompattatori incendiati dalla folla inferocita, lanci di bottiglie molotov ed esplosioni di petardi. Qualcuno, in uno slancio di epica dissidenza, ha dato alle fiamme pure il tricolore : quando ce vò ce vò! Se non fosse il mese di ottobre, si potrebbe pensare ad una piedigrotta in piena regola, dove i carri dei cantanti sono sostituiti dalle camionette della polizia e le maschere di carta pesta dai sacchetti di umido accatastati al centro delle strade. Napoli come Kabul e Terzigno come Herat : il sillogismo è facile. A sedare gli squilli della rivolta non è servito neppure il ritorno in Campania del presidente del consiglio e del capo della protezione civile. La promessa di sospendere le operazioni di sversamento a tempo indeterminato è poca roba : quella discarica va chiusa perchè puzza e perchè la salute dei bambini vesuviani è a rischio. Con chi ce l’hanno gli abitanti di Terzigno? Con i politici locali? Con il governatore della Campania? Protestano forse contro le società che dovrebbero raccogliere i rifiuti, ma che non lo fanno perchè non vengono pagate? Sono arrabbiati con se stessi perchè molti di loro giudicano la raccolta differenziata una procedura da fessi? No. Per i napoletani la colpa di questo disastro è di Silvio Berlusconi, in quanto capo del governo. Per comprendere le ragioni di questa condanna occorrerebbe fare un passo indietro e spiegare in poche parole il senso ed il rapporto che i napoletani, ma più in generale i meridionali, hanno con le istituzioni. A Napoli, quando qualcosa non funziona o, per esempio, qualcuno perde il posto di lavoro, è sempre “Colpa ro’ guern!”. Si tratta più o meno di una parafrasi dialettale di “Piove : governo ladro!”. Anche quando la squadra di calcio andò incontro al fallimento fu “Colpa ro’ guern!” e non delle gestioni allegre dei precedenti presidenti. Questa concezione centralista ed assistenzialista dello Stato la ritroviamo anche in un’altra vicenda che con Napoli ha poco da spartire, se non in riferimento alla situazione di Pomigliano, quella cioè del difficile rapporto tra i vertici della Fiat ed un certo mondo politico e sindacale. Per decenni i bilanci della Fiat sono stati “drogati” dagli aiuti di Stato, nel solco di un capitalismo fittizio, chiuso al libero mercato e quindi alla competizione internazionale. L’attuale ad del Lingotto, Sergio Marchionne, tra mille polemiche, ha deciso di invertire la rotta. Non più incentivi, ma libera gestione della produzione. Per fare questo, dice Marchionne, occorre liberarsi di alcune zavorre ed aprire l’azienda alle regole della globalizzazione. Intervistato nel programma “Che tempo che fa” di Fazio, Marchionne ha riportato un dato allarmante : dei due miliardi di utili conseguiti dalla Fiat nel 2010, neppure un euro proviene dagli stabilimenti italiani. Apriti cielo! “L’uomo dal maglione blu” è un ingrato! Hanno chiosato i più importanti quotidiani. “Ha parlato da canadese più che da Italiano” ha sentenziato il presidente della camera, Gianfranco Fini. Ma cosa avrebbe dovuto dire Marchionne, una balla? Inventarsi che in Italia la produzione è florida e che la globalizzazione è una porcheria? Fini, Epifani e gli altri preferiscono una Fiat pubblica, sovvenzionata a vita “Rò guern”, o un’azienda competitiva che sappia farsi valere sui mercati internazionali, senza pesare sulle spalle dei contribuenti?