Una tristezza senza fine

Fulvio Sguerso

Sulla tragedia di Avetrana (la “città dei veterani”) non è certo ancora calato il sipario (o il pietoso lenzuolo bianco invocato dal direttore della “Stampa” Mario Calabresi), e dove non sembra nemmeno possibile parlare di “catarsi”, dal momento che non viene rappresentata in un teatro dell’antica Grecia, ma giorno dopo giorno quasi in diretta televisiva e nella miriade di social networks dove, più che meditati contributi a riflettere su quello che è accaduto, che accade e che può per colpevole disgrazia accadere ovunque e in ogni momento, si dà libero corso ai peggiori istinti che albergano nell’animo umano; come  a dimostrare che, malgrado i mirabolanti progressi della tecnica e del dominio sulla natura a cui è giunta la nostra civiltà, in molti, in troppi casi,  è l’agire umano, anzi disumano  a essere dominato da pulsioni a tal punto cieche e distruttive  da far perdere, oltre al lume della ragione, anche quello del sentimento e di quella pietà naturale che, in teoria, dovremmo tutti provare per la sofferenza dei nostri simili, e non parliamo nemmeno per quella dei nostri cari. Giustamente la Rezzoagli non si stupisce  che delitti così orrendi possano essere e siano commessi persino all’interno di quel “nido di affetti” chiamato famiglia, e sulla cui inderogabile funzione educativa, etica e religiosa insiste e ammonisce di continuo, per esempio, la Chiesa cattolica, ma che da tempo – anche qui in molti, in troppi casi – assomiglia più a un  groviglio  di vipere che a un’intima unione di vita e d’amore “ordinata alla comunione e al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione dei figli” , secondo il dettato del Catechismo ; si stupisce invece della frivolezza di quegli avetranesi che non hanno impedito ai loro bambini di mostrarsi sorridenti vicino ai giornalisti, e del modo da reality show con cui i media, la televisione soprattutto e certi giornali di pochi o di nessuno scrupolo, raccontano la tragedia di Sarah e delle due famiglie di Avetrana, che  ogni   giorno sembra spostare più in là il confine  del credibile e del dicibile. E continua a stupire   non solo il sensazionalismo amorale con cui i media trattano una simile vicenda,   ma anche – e questa sembra essere un fenomeno recentissimo -, l’uso calcolato e strumentale che le persone coinvolte hanno fatto dei media medesimi. Come è possibile arrivare a tanto? Non ci sono dunque limiti al male in (e di) questo mondo? E come è possibile sopravvivere e continuare la propria vita quotidiana fingendosi preoccupatissimi per la scomparsa della cara nipotina e dell’amata cuginetta, rilasciare interviste e partecipare ai talkshow televisivi con quel peso sulla coscienza? Uno psichiatra, probabilmente,  direbbe che sono stati messi in atto i meccanismi difensivi della scissione, del diniego e della rimozione per poter sopportare sentimenti, ricordi e “voci” interiori altrimenti intollerabili. Ma per quanto ancora potranno reggere? Le difese della zio Michele, a quanto pare il personaggio più fragile di questa tragedia familiare, sono state le prime a vacillare sotto il peso di una colpa che non poteva più tenere tutta per sé. Ora accusa la figlia Sabrina che, almeno fino a questo momento (mercoledì 27 ottobre), continua a protestare la propria innocenza, mentre le due madri non vogliono più parlare con i giornalisti né comparire in televisione. Certo è che tutta questa atroce vicenda avrebbe bisogno di un Dostoevskij o di un Pirandello per essere raccontata in modo adeguato e in tutti i suoi risvolti  e le sue dinamiche soggettive e relazionali: di fronte allo sgomento che  (ancora) si prova per simili tragedie, i Salvo Sottile e i Bruno Vespa rivelano tutta la loro  inadeguatezza. , che è poi l’inadeguatezza del mezzo di cui si servono: i tempi e i salotti televisivi non sono fatti per scandagliare le profondità dell’animo umano, profondità in cui, come negli abissi dell’oceano, nuotano quei terribili mostri che preferiremmo non dover mai guardare negli occhi, ma che, quando affiorano in superficie – cioè sullo schermo televisivo -, sembrano esercitare uno strano potere fascinatorio, un potere che quasi ricorda il mysterium tremendum di cui parla Rudolf Otto nel suo saggio sul Sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione con il razionale (1917). L’unica cosa di cui non si può dubitare infatti è che, in questa tragedia dove una vittima innocente viene sacrificata non si sa bene in nome di chi e di che cosa, il male si presenta in tutta la sua tremenda irrazionalità, mettendoci di fronte, oltre che al dolore e alla pietà per le sue vittime (non si sa fino a che punto suoi inconsapevoli strumenti), al suo insondabile, spaventoso e, ahimè, anche  fascinans mistero. Questo non toglie che ciascun “attore” della tragedia debba assumersi fino in fondo le proprie responsabilità davanti alla giustizia umana e, se  crede che ci sia, davanti a quella divina. Dalle deposizioni della zio pentito e verosimilmente affranto, abbiamo saputo che andava spesso di notte a pregare sul luogo dove era stato occultato il cadavere, quella specie di pozzo artesiano in fondo al quale era stato gettato il povero corpo straziato di Sarah. Possiamo essere certi che, se tornasse indietro,  non commetterebbe più un simile delitto. Che cosa può aver obnubilato a tal segno la coscienza di quell’uomo da fargli disconnettere le sue azioni dai sentimenti che non poteva non provare, o non aver provato, per quella creatura che aveva visto crescere e fiorire insieme alle sue figlie? Qui davvero si toccano i limiti del comprensibile e del conoscibile. Altro fenomeno su cui varrebbe la pena meditare è quello ormai noto del cosiddetto “turismo dell’orrore”: come è possibile lasciarsi tanto suggestionare dai plastici di Bruno Vespa?  Se non ci stiamo attenti, è facile lasciarsi irretire dallo “spettacolo del dolore” allestito quotidianamente dai media, i quali non chiedono di meglio che trasformare gli spettatori più sprovveduti o in esibizionisti o in voyeurs. In questa tragedia familiare tuttavia un personaggio è come rimasto sullo sfondo, un personaggio che non parla, che non può più “recitare” la sua parte nel dramma, ma che continua a guardarci ancora sbigottito e incredulo che persone care e familiari di cui si fidava potessero arrivare a tanto, e ci interroga  con i suoi stupendi occhi azzurri di fanciulla che, come la Silvia del Leopardi, “lieta e pensosa, il limitare di gioventù” saliva, e ancora ci chiede quale colpa sia stata mai la sua per finire così. Quale colpa? Essere giovane e bella e piena di vita e di speranza di felicità? Anche tu Sarah, come Silvia, “All’apparir del vero, misera, cadesti, e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano.”