Dove la colpa?

Giovanna Rezzoagli

La notizia ripresa da molti giornali e da alcuni telegiornali lo scorso mercoledì, è di quelle che non vorrei leggere. E’ una notizia che fa male apprendere. Un uomo solo, anziano e vittima di profondo scoramento, si è tolto la vita lasciandosi precipitare nel vuoto dalla sua abitazione nel centro storico di Lecco. Tante persone si suicidano ogni giorno, i perché restano custoditi nel profondo dell’animo, sempre tormentato, spesso ammalato di chi mette fine alla propria vita. Ciò che ha portato la morte di questo anziano signore alla triste ribalta della cronaca, è costituito dal fatto che la tragica fine di quest’uomo non ha minimamente disturbato gli avventori di un locale situato proprio davanti al luogo del suicidio. Molte persone si godevano i timidi raggi primaverili sorseggiando una bibita e sbocconcellando un panino quando l’uomo si è lanciato nel vuoto. Hanno proseguito il loro spuntino durante i vani tentativi di soccorso da parte di chi è intervenuto, sono rimasti inerti di fronte alla polizia che compiva le operazioni di rito. Solo qualcuno si è incuriosito, spingendosi a scattare qualche istantanea della scena col cellulare. La morte, ridotta ad uno spettacolo, magari di cui mostrare una foto “in esclusiva” a qualcuno, giusto per dire “io c’ero”. Di certo, per molti, non un buon motivo per rinunciare al break. La domanda che sorge spontanea è “perché?”. Già, perché. La risposta non è certamente facile, posto che ve ne sia una accettabile alla ragione. Indifferenza? Sarebbe assolutamente facile rispondere che l’indifferenza ormai è un cancro che si è diffuso in tutti i tessuti sociali. Facile, banale e fuorviante. Chi scatta foto ad un cadavere  non è affatto indifferente, tutt’altro. Macabra curiosità? Si, certo, questa componente è senza dubbio presente in molte persone. Ma non basta. La mia personalissima riflessione mi porta a concludere che in tanti si sono assuefatti alla morte, cogliendo l’aspetto “spettacolare” dell’evento, non quello emozionale. Il mio pensiero non nasce da pessimismo cronicizzato, ma purtroppo ha un fondamento teorico negli assunti formulati da J.B.Watson, il padre del comportamentismo. Egli sostenne che si può condizionare una persona a comportarsi come si vuole, esattamente come Pavlov riusciva a fare con gli esperimenti sui cani. Semplicemente, Watson applicò il metodo di Pavlov agli umani, ottenendo gli stessi risultati. Noi oggi siamo talmente bombardati da immagini violente, che mostrano la morte in tutti gli aspetti possibili, da sviluppare una sorta di assuefazione, di abitudine. Non reagiamo più. Alcuni, come avvenuto a Lecco, nemmeno perdono l’appetito. La mia generazione, cresciuta nel benessere e abituata sin dalla più tenera età a convivere con la scatola magica in soggiorno, non sa confrontarsi con le emozioni. Non è un caso che si cerchi spasmodicamente lo sballo, il divertimento a tutti i costi, l’estremo. Semplicemente, il quotidiano è diventato banale e scontato. Certo, non è così per tutti. Ma per molti si. E sarà sempre peggio. E’ un social problem di cui si comincia ad avere cognizione, quando si manifesterà in tutta la sua evidenza, con l’avvento delle nuove generazioni cresciute non solo con una scatola magica in salotto ma con tutto un assortimento di scatole e scatolette magiche da portare sempre appresso, forse sarà troppo tardi per porre rimedio. Dove la colpa, se colpa c’è?