Quando il pubblico diventa privato e il privato pubblico

Fulvio Sguerso

Il clamore che si è fatto e si continua fare sulle rivelazioni, intercettazioni, gossip e scoop a sfondo sessuale che riguardano la vita privata di personalità   e autorità (?) pubbliche di ogni ordine e grado e, ormai nessuno più ne dubita, di ogni appartenenza (da tempo i partiti sono defunti) politica, rischia di occultare, almeno agli occhi di una pubblica opinione sempre più frastornata o indifferente o distratta da spettacoli e intrattenimenti televisivi di gusto e stile non propriamente “alto” , lo scempio che si sta mettendo in atto (anche approfittando dello stato confusionale in cui versa la cosiddetta “opposizione”) delle nostre istituzioni repubblicane e, ancora sulla Carta, democratiche. La personalizzazione spettacolare e mediatica, l’enfasi propagandistica e martellante sul carisma vero o presunto del leader indiscusso, il continuo appellarsi alla “volontà del popolo italiano”, la polemica incessante nei confronti di “questa sinistra parolaia, inconcludente ( vero, ahimè) e livorosa”, la guerra civile permanente contro “certa” magistratura “politicizzata”, l’antiparlamenterismo dichiarato e la mentalità antipolitica o imprenditoriale del premier, l’esaltazione (retorica) del “fare” e dell’ “agire” che contraddistinguerebbe l’attuale governo,  tutto questo a che cosa mira se non alla trasformazione prima surrettizia – già in parte avvenuta con il tacito consenso della vituperata (in questo caso a regione) sinistra – e poi “legale” della nostra repubblica da parlamentare, come la concepirono i Padri costituenti, a presidenziale, come la sogna il Cavaliere imprenditore? E se fosse questa, si potrebbe obiettare, la volontà della “maggioranza degli italiani”? In fondo, se questa maggioranza ha votato per tre volte il nome e il simbolo del Cavaliere imprenditore, conoscendo, vogliamo supporre, i suoi trascorsi e il suo conflitto d’interessi, non sarà che il parlamentarismo non incontri poi quel gran favore presso il “popolo”? Certo è che la degenerazione della prima Repubblica, già in atto assai prima che gli avvisi di garanzia della  magistratura milanese (e la caduta del muro di Berlino) le dessero il colpo di grazia, rappresentata dai partiti del  cosiddetto “arco costituzionale” ha favorito l’emergere di movimenti e partiti che erano rimasti fuori, almeno apparentemente, dal Palazzo del potere e dai “salotti buoni” della classe dirigente economico-politica. Il fenomeno del berlusconismo non si spiegherebbe senza la stagione della “Milano da bere”, del rampantismo e del connubio sistematico tra affari e politica che ha contrassegnato l’ascesa e la caduta di un leader come Bettino Craxi, divenuto capro espiatorio di un regime partitocratrico che nulla aveva più da spartire – al di là delle cerimonie e dei discorsi ufficiali –  con gli ideali, anzi, con le idee che ispirarono la nostra Costituzione repubblicana. Inoltre, con il passaggio plebiscitario dal proporzionale al maggioritario, sia pure corretto, sembrava che si fosse voltato pagina e che fosse cominciata una nuova e più partecipata stagione etico-politica della vita nazionale. Ma le speranze di molti andarono presto deluse: la cosiddetta “seconda Repubblica” non si è rivelata, alla prova dei fatti, migliore della prima. Dalle cronache di questi  anni e di questi giorni emerge che il connubio affari-politica è divenuto addirittura più pervasivo e capillare, e la corruzione ha assunto proporzioni e modalità sardanapalesche. Come è stato possibile? “Se l’intrallazzo governa la seconda repubblica al pari della prima, dobbiamo chiederci quali regole siano sopravvissute con la medesima divisa dopo Tangentopoli. Ma la risposta non è affatto complicata, perché la corruzione galleggia sempre in un sistema chiuso, oligarchico, senza ricambio di classi dirigenti. Nuota a suo agio dove il mare è opaco. Dove i controllori coincidono con i controllati. Dove manca ogni separazione fra economia e politica, così come fra amministrazione e governo. Dove infine la cultura del merito sta solo sui libri, perché nella vita reale l’appartenenza trionfa sulla competenza.” (Michele Ainis, La Stampa del 22/02). La cultura del merito che cos’è? Non sa di aristocrazia, non certo di sangue ma di sapienza e virtù? D’altra parte non è che tutti, ma proprio tutti siano adatti a governare. Platone riservava ai filosofi il governo della sua Repubblica ideale, in quanto solo essi amavano soprattutto il Bene e, amandolo, non avrebbero potuto mancare di metterlo in opera. A beneficio di tutti. Ma è facile obiettare che la Repubblica platonica esiste solo nei cieli. E allora? Anche il Regno di Dio non è di questo mondo; diremo per questo che non esiste? E’ una questione di fede, è vero; ma volete toglierci anche la fede, oltre che la speranza (non parliamo nemmeno della carità)?