La valenza del rito nella società contemporanea

 Giovanna Rezzoagli

L’uomo è, tra tutti gli esseri viventi, l’unico a possedere la consapevolezza di dover morire. Per quanto ci si sforzi di allontanare questa ideazione, soprattutto nella moderna cultura occidentale, tutta la nostra esistenza ne risulta pesantemente condizionata. Come tutte le esperienze vicariali, quella della morte non può essere introiettata razionalmente, ma risulta essere profondamente coinvolgente a livello emotivo. Nessuno infatti può sperimentare direttamente la propria morte se non nel momento del suo compimento, ma tutti assistiamo alla morte altrui. La risonanza emozionale dell’irreversibilità della morte ha determinato nell’essere umano la necessità di razionalizzare questa consapevolezza. In ambito antropologico si è evidenziato come, sin dall’antichità più remota, l’uomo abbia posto in essere svariati comportamenti chiaramente riconducibili a comportamenti sequenziali di atti regolati da norme e tempistiche codificate con rigore. In termini molto concreti, i riti. Per comprendere il significato di un rito è necessario rintracciare la funzione che esso svolge e per la quale è messo in atto. Occorre precisare che esistono riti la cui valenza è condivisa a livello culturale, ed altri che rivestono specifico significato solo per il soggetto che li mette in atto. Particolare rilevanza hanno i cosiddetti “riti di passaggio”, locuzione utilizzata per la prima volta dall’antropologo francese Arnold van Gennep (1873-1957) per indicare quei riti – presenti diffusamente in tutte le culture, antiche e moderne – che sottolineano i momenti più importanti della vita di un individuo: la nascita, la pubertà, il matrimonio e la morte. Van Gennep individuò tre stadi cruciali, presenti generalmente in ogni rito di passaggio: nel primo, lo stadio della separazione, l’individuo viene isolato dal resto della comunità e abbandona il ruolo rivestito fino a quel momento; il secondo consta di un periodo di transizione, durante il quale l’individuo viene tenuto in una condizione di ambiguità e introdotto progressivamente nella nuova condizione; nel terzo, la reintegrazione, l’individuo viene riammesso nella comunità e gli viene riconosciuta pubblicamente la nuova personalità. Concepimento, gestazione e nascita comportano spesso modifiche nelle abitudini di uno o entrambi i genitori, alcune delle quali vengono mantenute dopo il parto. Nel rito della nascita, la separazione è rappresentata sia dall’isolamento della madre prima del parto, sia dalla resezione del cordone ombelicale, che allontana definitivamente il bambino dal suo luogo d’origine. La riammissione e la presentazione pubblica del neonato può culminare in altre cerimonie, come ad esempio quella dell’assegnazione del nome (il battesimo) o la circoncisione. In molte società i riti di pubertà, che segnano il momento in cui l’individuo accede alla condizione di adulto, sono complessi e prolungati nel tempo, soprattutto se l’iniziazione è collettiva. Per le femmine può avere luogo al momento delle prime mestruazioni (menarca); per i maschi può variare. In molte culture gli iniziati sono sottoposti a impegnative prove fisiche o a menomazioni (circoncisione, scarificazioni, tatuaggi ecc.) che possono risultare mortali. I riti del matrimonio sanciscono civilmente o religiosamente l’unione di un uomo e di una donna e l’appartenenza alla famiglia di ogni nato dalla coppia. I riti possono includere feste e scambi di doni fra le famiglie, l’isolamento per la “luna di miele”, la riammissione degli sposi nella società. Oltre al significato religioso ed economico, i riti matrimoniali tendono a sottolineare il significato contrattuale dell’unione. Ogni tipo di civiltà ha lasciato tracce e testimonianze relative a usanze e rituali funerari. Le più antica forma conosciuta di sepoltura risale al periodo dell’Homo sapiens; durante alcuni scavi archeologici sono stati rinvenuti corpi tinti di ocra inumati in posizione fetale Gli antropologi ritengono che i diversi metodi utilizzati per seppellire i defunti siano dovuti, oltre che alle credenze religiose, anche ad altri fattori, quali ad esempio il livello culturale delle civiltà e le condizioni climatiche. Il rituale funebre più complesso è quello dell’imbalsamazione praticata dagli antichi egizi. Ritenendo necessario preservare intatto il corpo del defunto per consentire alla sua anima il passaggio a una nuova vita, gli egiziani avevano perfezionato la tecnica della mummificazione, che impediva il processo di putrefazione. Il rito funebre più diffuso nelle società occidentali è la sepoltura, cerimoniale antichissimo che probabilmente celebrava in origine un ritorno simbolico alla ‘madre Terra’ (vedi Gea), una delle divinità più grandi e potenti dei popoli mediterranei. Nelle società occidentali contemporanee, soprattutto nei grandi centri urbani, il rituale funebre si è considerevolmente semplificato, ma anche standardizzato e impoverito, perdendo i significati che aveva rivestito in passato. Ciò è dovuto anche al fatto che una gran parte dei decessi avviene negli ospedali, la cui organizzazione si fa carico di provvedere a tutto quanto occorre per una efficiente e veloce cerimonia funebre, fatta anche per evitare ai parenti di mostrare in pubblico il loro dolore. Eppure il rito funebre riveste un ruolo fondamentale per iniziare il processo di elaborazione del lutto. Ma oggi ci si sofferma il meno possibile sul pensiero della morte, e anche molti dei riti che scandiscono le nostre vite passano quasi inosservati. Ma tutti ne abbiamo, spesso le chiamiamo abitudini. Molto probabilmente un piccolo rito quotidiano ci aiuta a mantenere il nostro senso di individualità. Un rito condiviso assume valenza di condivisione, anche nella nostra frenetica corsa quotidiana.