Il lato oscuro della maternità

Giovanna Rezzoagli

Quando si pensa alla maternità, in genere la si associa a pensieri lieti. Non a caso si parla di “lieto evento” allorché si allude alla nascita di un bimbo. Oggi molte donne affrontano la maternità in modo molto più consapevole rispetto a pochi decenni fa. E’ possibile, per molte, decidere se diventare madri o meno. Una maternità non desiderata o peggio, subìta, è fonte di grandi sofferenze per madre e figlio. L’immagine della madre sempre felice di accogliere una nuova vita è molto stereotipata, drammaticamente lontana dalla realtà. Di fatto la possibilità di appendere un bel fiocco rosa o azzurro sopra la porta di casa, rappresenta solo l’inizio di un lungo viaggio destinato a durare per tutta la vita, un percorso impegnativo ed irto di ostacoli, in cui spesso si inciampa e, a volte, si cade. Una riflessione che è opportuno formulare riguarda l’investimento affettivo che la donna compie di fronte alla propria maternità: un figlio non è un bambolotto che piange schiacciando un bottone, o che sorride sempre. Potrà sembrare banale, ma di fronte ad un neonato che piange è possibile provare senso di inadeguatezza, di insofferenza, di frustrazione. E’ del tutto normale, l’importante è sapere che può accadere e che accade. Succede a tutte le mamme, prima o poi, di non sapere che fare di fronte ai piccoli e grandi problemi che l’arrivo di un bimbo, inevitabilmente, comporta. Lo psichiatra e neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea, autore del libro intitolato “Le madri non sbagliano mai”, rivaluta l’aspetto istintuale della maternità, avvalorando l’importanza del rapporto privilegiato che si crea tra madre e figlio già durante la gravidanza. Sostanzialmente non ci sono madri perfette, perché ogni madre è unica, come unico è il proprio figlio. L’essenza della maternità è proprio questa: conciliare l’immagine idealizzata del proprio figlio con quella reale che poi ci si trova davanti. Non esistono madri buone o madri cattive, esistono donne che non sono in grado di accettare la propria maternità. Per immaturità, per egoismo, per paura. Esistono certamente donne capaci di istinti omicidi. Esistono, semplicemente. La nostra società è spesso ingiusta nel negare alla donna il diritto di realizzarsi in quanto tale anche al di fuori dal contesto familiare. La cronaca purtroppo si deve occupare sempre più spesso di donne che uccidono i propri figli. Subito si parla di patologia psichiatrica, di depressione post partum, di disagio, di degrado. Si cita, spesso a sproposito la “Sindrome di Medea”, per la quale una madre uccide i figli per arrecare dolore al padre. Siamo impreparati e profondamente vulnerabili di fronte anche solo all’ipotesi di una madre che deliberatamente sopprime la vita che lei stessa ha dato alla luce. Molto spesso, invece, è proprio così. Il numero di aborti parla chiaro. In epoca in cui una gravidanza non voluta si può evitare, tante donne arrivano a scegliere l’interruzione volontaria della gravidanza . Si può discutere all’infinito sulle modalità con cui si pratica l’IVG nel nostro Paese, ma ciò non modifica di una virgola l’evidenza che molte donne rifiutano la loro maternità. I motivi possono essere moltissimi, ma credo sia ipocrita pensare che alla base del rifiuto vi sia sempre e solo un disagio. Sarebbe troppo semplicistico pensare che si giunga all’aborto solo quando si è vittima di violenza, o si vive in condizioni di degrado. La legge italiana prevede l’aborto, ma la società italiana deve sempre giustificare in qualche modo il rifiuto della vita già iniziata. Eppure ci sono tante donne che ricorrono all’IVG perché non si sentono pronte a diventare madri, perché non è il momento giusto, perché il lavoro o la carriera ne risentirebbe, perché si hanno già i figli che si desideravano. E’ una realtà spiacevole, ma è la realtà nuda e cruda. In quest’ottica, depauperata del cliché di ipocrita perbenismo, l’affrontare serenamente sin dalla prima adolescenza il delicato argomento della maternità consapevole diventa essenziale. Non tutte le donne nascono con l’istinto materno, così come tanti uomini non avvertono il desiderio di essere padre. La differenza la delinea la nostra società, che colpevolizza la donna che non desideri la maternità, ma nel contempo impone il mito della bellezza e dell’eterna giovinezza. Diventare madre significa rinuncia, significa mettere avanti alle proprie esigenze quelle del proprio figlio. Esiste il lato oscuro della maternità, e si evidenzia non solo nei più dolorosi casi di cronaca, ma anche in tanti contesti di famiglia molto più “normali” in cui regna l’indifferenza o, paradossalmente, il suo opposto: l’attaccamento morboso. Tante madri, che vivono inconsapevolmente la maternità come un’imposizione, compensano l’intimo rifiuto del figlio manifestando iperprotettività nei suoi confronti. Diventare madre non è che il punto di partenza, l’essere madre è una conquista unica, faticosa e straordinariamente meravigliosa.