Sobrio o monacale?

Aurelio Di Matteo

Se è stabilito da un’imperscrutabile volontà divina o da un’insindacabile disposizione monarchica che il governo dei professori debba durare fino a quando reggeranno le consunte membra dei cittadini, almeno che non si ascolti più il termine “sobrio”. Anche perché non si è compreso con quale accezione esso sia usato. I periodi storici sono quasi sempre caratterizzati dall’uso ripetuto e dominante di un lemma, che invade le istituzioni, il costume, la comunicazione, la collettività e l’individualità. Diventa un totem, quasi un apriti sesamo per tutti i problemi. Con l’uso frequente, la sua articolazione si piega a significazioni che spesso si allontanano da quella vera e originaria. È fuori di dubbio che il periodo che stiamo vivendo, politicamente inteso come antiberlusconiano, sia dominato dal termine “sobrietà”. Dalla politica all’economia, dalla letteratura ai dibattiti, dalla comunicazione alla vita quotidiana, dalla pubblicità alla moda, un medesimo stile e un comune imperativo: essere sobri! A sentirlo la prima volta, giusto all’apparire del Professor Cavalier Monti, subito mi son detto: se è per questo, io sono a posto. È da tempo che sono astemio. Da subito, però, la sobrietà è passata a connotare non la temperanza nell’uso degli alcolici o del cibo o in genere dei piaceri terreni della vita, e nemmeno la caratteristica della vita personale del singolo, ma a indicare gli elementi essenziali della convivenza civile. Mi sono chiesto. Che c’entra la sobrietà con le istituzioni e soprattutto con l’economia, dal momento che le prime si fondano su norme che in sé sono regolatrici di diritti o di doveri, di procedure o di obblighi, e la seconda su motivazioni, obiettivi e scelte che escludono ogni implicazione di natura personale e meno che mai con riferimento all’essere sobri. Allora, per una personale verifica delle mie limitate cognizioni scolastiche, riandando al suo etimo mi sono imbattuto in alcuni riferimenti lessicali e letterari. L’importanza della sobrietà è tutta nel suo significato antropologico, in ciò che comporta sull’etica personale. Il termine è latino – sobrius derivato da s-ebrius con s privativa – e fa riferimento a chi si astiene dal bere. Per questo l’ampliamento semantico e i sinonimi hanno una marcata connotazione religiosa all’insegna dell’astinenza. A cominciare dalle parole del Cristo, riportate dal Vangelo di Luca: ” Guai a voi ricchi perché avete la vostra consolazione”, riprese quasi identiche da San Bernardino da Siena: “ Fratelli miei, o voi che sete richi, così a voi donne riche, state sobri, perché voi siete ne’ pericoli de le abondanzie, vegliate e state sobri”. Nelle Sacre Scritture l’invito alla sobrietà è sempre connesso alla tematica della ricchezza, del denaro e della ricerca di beni terreni. Forse è qui il motivo della spoliazione fiscale: il consumo e l’acquisto di un bene, anche se fosse l’abitazione, come conseguenza della disponibilità economica, sono cose non gradite alle divinità! Accumulare beni ed essere ingordi è il contrario di una vita che s’ispiri a finalità religiose. Da qui scaturiscono, lessicalmente, i sinonimi – claustrale, monacale, cenobitico – e, con il governo dei professori, la nuova terminologia della comunicazione politica – sacrifici e astinenza -.  E non poteva essere diversamente, dal momento che la composizione del Governo è caratterizzato dalla presenza di un rilevante numero di Ministri di chiara espressione e riferimento al Vaticano. Con una contraddizione evidente: il governo che predica sobrietà e comportamenti claustrali, non dà di certo un buon esempio dall’alto del proprio reddito che quasi per tutti supera il milione di euro e per qualcuno raggiunge i dodici. Come a dire, contraddicendo il Vangelo, la ricchezza come obiettivo di vita e la banca come proprio simbolo e contesto. Non che questo costituisca qualcosa d’illecito, d’illegittimo o di eticamente condannabile; solo che non gli si addice la sobrietà nel suo significato sia etimologico sia antropologico. E poi c’è la sobrietà nel suo aspetto comunicativo, che tanto va di moda con l’irrompere di professori e maestrine, quella pacatezza della voce, quella scansione del dire e non dire, delle pause riflessive, quel tratto pedagogico che sembra uscito dallo squarcio descrittivo del funzionario di partito in una nota pagina di Giovanni Arpino: “Parlava senza muovere le mani, guardando fisso davanti a sé….era sobrio e sicuro e alla gente piaceva”. Se la sobrietà è questa e i risultati solo quelli ai quali assistiamo, per carità di patria, preferisco non essere sobrio, a costo di ricominciare a bere un bel bicchiere di vino rosso, magari un Taurasi genuino e sanguigno delle mie terre di nascita. Anche perché, storicamente, non risulta che la vita sobria del chiostro, ispirata al silenzio, alla pacatezza e al parlare sottovoce, abbia prodotto le grandi svolte epocali o semplicemente il rinnovamento sociale ed economico. Le rivoluzioni sono state sempre accompagnate da urla e grida, dal ritmo della frenesia attiva, dalla violenza dei comportamenti. E poi, quel tanto di monacale, quel sottovoce da passeggiata claustrale, quel comunicare in modo didatticamente sacrale, non possono mai preludere ad altro se non al consolidamento e alla conservazione delle strutture e delle stratificazioni sociali esistenti. Per questo, con un buon calice di rosso sanguigno, prima o poi ricomincerò a non essere sobrio.