Le due sorelle… quelle

Dott. Carmine Paternostro

Un giorno, quel giorno, un giorno tra tanti di data indistinta avvenne che le due sorelle, in paese si sapeva chi erano, gemelle non anagraficamente di nascita, ma nel comportamento, si avventurarono a trovarmi nello studio.

Si dicevano di nobile stirpe e, credo che dall’epoca del battesimo non avevano più incontrato i benefici dell’acqua. Convivevano con una corte copiosa: cani, gatti, forse topi e pipistrelli negli angoli angusti di un immenso stanzone d’ epoca medioevale, ove non credo esistesse un bagno, non diciamo la doccia, perché escludo che esistesse un rubinetto d’acqua corrente. Di certo non c’era la luce elettronica, intendo elettrica, nel nostro comune partorita dalla forza scorrevole del fiume Coscile. Sospetto, allora, che qualche candela avesse animato qualche momento della loro giornata, a rischio d’incendio, per l’arredo in cartone e fasci di legna sovrapposti nel disordine di quella dimora.  Forse la guerra per loro non era finita o mai iniziata. Si vantavano di avere avuto un grande generale dell’esercito come antenato. Di quale guerra perduta o eccezionalmente vinta? Orgogliose, mi mostravano un ritaglio di giornale intirizzito con foto. E, sì, perché da medico missionario, con guanti e mascherina penetrai con il motorino nelle strettoie di straduzze fino alla loro dimora. Non so se per malattie o per ascoltare la celebrazione del nobile casato. Comunque un alito di quel fetore insistente penetrava nel naso. Una grossa apertura nell’atavico portone di legno consentiva il traffico d’entrata ed uscita di quel giardino (si fa per dire) zoologico e forse un perenne cambio dell’aria. Ritengo che quelle due donne avessero titoli anticorpali da incutere terrore a quel Coronavirus che con i suoi abiti mutevoli, oggi, minaccia ogni giorno di più.

Ma è missione del medico fare sempre di più, dove chiama il bisogno. Oggi non vediamo lebbrosi, pestiferi, infermi con la “spagnola”, ma altre espressioni morbose, altri pericoli, il Covid 19, come moda evolutiva, nel tempo mutevole. E’, per chi crede nel Cristo, un compito alla S. Teresa di Calcutta, un silenzioso e spontaneo dovere imposto dalla coscienza.  Medico di tanti novizi, dicevo: “nel bisogno chiamatemi e mi vedrete entrare prima con la croce di Cristo e poi con la borsa di medico”. Non posso smentirmi, sarà per sempre così.

Infatti, quelle sorelle una mattina mi vennero a trovare nell’Ambulatorio. Era una mattina d’inverno, qui, in montagna. I termosifoni proponevano un calore, mai soddisfacente. Tutti gli astanti, in attesa delle mie prestazioni, spalancarono la porta e finestra e, con quel gelo, invitarono le due donne, coperte da panni secolari, ad accedere al medico, per precipitarsi subito fuori, come in timore di una bomba esplosiva di un profumo venefico…

Giunte al mio cospetto:” Dottore, che persone gentili, educate, i vostri assistiti. Ci hanno notato e subito ci hanno dato la precedenza. Sanno che siamo di nobile stirpe… onore per il nostro paese”.

In loro era dominante la realtà di una fiaba. Il loro era un sogno che viveva da sempre  nel sonno di un’atemporalità di un infinito compiuto, che nella mia missione di accoglienza mi ha consentito di procedere prima con la croce di Cristo e poi con la borsa di medico.