In libreria "Il fiore delle lacrime", antologia a cura di Vincenzo Guarracino

Fabio Dainotti
La più recente fatica letteraria di Vincenzo Guarracino, critico letterario autore tra l’altro di una fortunatissima Guida alla lettura di Verga uscita per i tipi di Mondadori, è l’antologia “Il fiore delle lacrime” (Ed. Puntoacapo 2020, pagg. 252, € 25,00). Il libro raccoglie attorno al tema del dolore e della sua più evidente manifestazione esteriore, le lacrime, molti dei maggiori poeti contemporanei, ognuno dei quali offre una particolare sfaccettatura del tema, andando a comporre un diorama suggestivo e variegato. Ma quanti e quali sono i i poeti convocati? Sono circa centocinquanta, impossibile enumerarli tutti nel breve spazio di un articolo. Basti qui accennare ad alcuni di essi: Silvio Aman, Michele Brancale, Luigi Cannillo, Laura Cantelmo, Gabriella Cinti, Tiberio Crivellaro, Annitta Di Mineo, Antonio Donadio, Ivan Fedeli, Mauro Ferrari, Alessandro Fo, Lucetta Frisa, Laura Garavaglia, Elio Grasso, Gilberto Isella, Pasquale Maffeo, Dante Maffia, Franco Manzoni, Lorenzo Morandotti, Ivano Mugnaini, Guido Oldani, Alessandra Paganardi, Ugo Piscopo, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Maria Pia Quintavalla, Mario Rondi, Gabriella Sica, Antonio Spagnuolo, Adam Vaccaro. Senza voler far torto agli altri contributori, che hanno mandato testi validissimi e di alto livello. Ad ognuno di essi il prefatore ha dedicato un breve ma significativo commento, e una notizia bibliografica in calce al volume. Molto interessante la prefazione del curatore, significativamente intitolata Un mistero, il male. Guarracino parte da una domanda, desunta da Boezio, che ha sempre interpellato gli uomini: Si deus est, unde malum? Il problema del male ha impegnato nel tempo le menti di tanti pensatori e di tante persone comuni. Il male, quest’ospite indesiderato, esiste, riflette Guarracino, illustre leopardista, che, dopo un cenno a Leopardi, precisa che si tratta di “qualcosa che avviene a un triplice livello: metafisico, fisico e psichico. Per Joseph de Maistre una sorta di “malattia originale”. Vincenzo istituisce poi un rapporto tra malattia e scrittura, per chiedersi poi: Ma da dove viene il male? “Da dove il vuoto dell’anima che spossessa di ogni aspirazione e porta a concepire ogni cosa come nullità?” Dal destino assurdo di essere ed esserci, gettati e abbandonati in un mondo estraneo e incomprensibile, dice Montale, che nella coscienza della Contemporaneità segna uno spartiacque essenziale, avendolo disegnato nella formula memorabile di un suo “osso”, appunto il “male di vivere”. (I filosofi parlano di esserci,  il dasein.  Già Lucrezio, un esistenzialista avant lettre, parlava del dramma di essere gettati, nascendo, in luminis oras , nelle plaghe della luce; N.d.R.). Tante le possibili definizioni del male di vivere di montaliana memoria; malinconia, accidia, tedio oscuro, depressione e altro ancora, con manifestazioni consequenziali associate spesso a disistima e sensi di colpa. Intento di Guarracino,  poeta   in proprio, che compie la scelta (questione di stile) di non presentare suoi testi nel libro, è quello di offrire “una sorta di cartografia della poesia italiana di oggi” a partire proprio dal  male di vivere cantato da Montale. Al male di vivere “si presta come efficace veicolo espressivo oltre che (…) come terapeutico compenso, la scrittura poetica. Si scrive infatti per dar voce a ciò che preme, lieto o doloroso che sia” e “per sottrarlo all’ insignificanza attraverso la scrittura, ridandogli corpo attraverso la grammaticalizzazione di sentimenti e stati d’animo, nell’attimo in cui più forte risuona l’esigenza di confermare la fisicità dei propri affetti anche attraverso il semplice gesto di tracciare un segno”.  E prosegue.  “La vita si fa forma attraverso l’avventura della scrittura. (Qui  Guarracino usa il corsivo intendendo con la parola scrittura rifarsi all’accezione usata da Barthes per indicare il linguaggio letterario codificato). Il prefatore ha scelto testi poetici, perché, come dice citando Heinrich Heine, la poesia è una malattia dell’uomo e anche perché è in grado di rappresentare con più immediatezza “le dinamiche dell’io di fronte a siffatto sentimento”.  L’ultima parte del saggio introduttivo, perché tale è in effetti, riguarda il parlarpoesia. La poesia è il linguaggio dell’invenzione, della fantasia, dell’affetto. “Chi parlapoesia mette in scena in maniera più scoperta le proprie ferite, il proprio vuoto, in cui far precipitare attraverso le parole il sentimento. In tale spazio della scrittura poetica, conclude il curatore, “cioè sulla scena della malattia” la poesia è chiamata a “svelare e al tempo stesso esorcizzare un disagio, che è rifiuto del presente e insieme desiderio di un Altrove risolutore ed assoluto”, trovandosi così nella condizione “di sintomo e al tempo stesso di farmaco”.
Interessante anche la postfazione di Carlo Di Legge, che sintetizziamo citandola dal risvolto di copertina: “Nella storia degli uomini si offrono testimonianze di pianto e di dolore a dovizia, e a maggior ragione nelle arti. La letteratura, campo del verosimile, offre uno smisurato repertorio di umanità in dolore e pianto. Come il dolore è universale e di ogni tempo, così è avvenuto in ogni tempo che uomini e donne abbiano pianto. La poesia, emozione in parola e simboli, e la narrativa, restituiscono questa verità.