Con il nuovo anno una domanda: la filosofia non serve?

 Aurelio Di Matteo

Nel parlare della quotidianità è da sempre molto nota un’opinione sulla Filosofia, secondo cui essa sarebbe “quella cosa con la quale e senza la quale si resta tale e quale”. Insomma una “attività” inutile, dalla quale è esclusa ogni forma di produttività, materiale e immateriale. Berlusconi dall’alto della sua massa finanziaria, ottenuta con il “lavoro” degli altri, avrebbe detto del filosofo: uno che nella vita non ha mai fatto niente. Omettendo, però, che del loro “pensare” si è servito ampiamente, nel bene e nel male – più nel male per la moltitudine.

Da qualche tempo una simile opinione è tornata di moda, espressa, però, non con quel poco di celia che è nel dire della quotidianità, ma da illustri ed eccezionali rappresentanti della scienza, in particolare della Fisica. Tra questi due grandi premi Nobel, Stephen Hawking e Steven Weinberg.

Il primo afferma con decisione che “la filosofia è morta perché ora abbiamo la scienza”.

Il secondo, all’interno di una sua pubblicazione – Spiegare il mondo – con la quale ripercorre il cammino della scienza, non esita a dedicare ampio spazio all’inutilità del pensiero filosofico, con un capitolo intitolato Contro la filosofia. E questa concezione si è estesa alla dominante intellettualità mediatica.

Peccato che questi due illustri scienziati, per muovere tali critiche e formulare tali affermazioni, ritenute al riparo da ogni contestazione, si servano proprio di un “discorso filosofico.” E per di più un discorso filosofico molto vecchio, che già un certo Aristotele, ancora giovane, confutava in modo deciso con questa stessa argomentazione. Non solo; ma aggiungeva, dando forse inizio a quella elaborazione filosofica che sarà chiamata Epistemologia, che senza la ricerca dei principi e delle idee guida per la ricerca nessuna possibilità di scienza è possibile. Ed è ciò che puntualizza, successivamente, iniziando la sua Fisica: “Poiché in ogni campo di ricerca di cui esistono principi o cause o elementi, il sapere e la scienza derivano dalla conoscenza di questi ultimi…è evidente che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i principi.”

E peccato, anche, che le loro improvvide asserzioni non tengano presente che proprio la filosofia ha consentito alla conoscenza scientifica non soltanto di nascere e progredire nell’indagine della Natura, ma soprattutto di avere consapevolezza di sé, dei suoi metodi e dell’attendibilità dei suoi progressi e delle sue possibilità. Senza le “immaginazioni filosofiche” non ci sarebbero state le grandi asserzioni, non del tutto verificabili, di Newton, quali gli assiomi e le definizioni del modello cosmologico sui quali si fondava la sua fisica matematica, nonché i fondamenti del principio di inerzia, del tempo, dello spazio e del moto assoluti. E non meno debitori della filosofia furono Keplero e Galileo.

Sono debiti che risalgono quanto meno al Socrate platonico, che per primo con decisione segnò il primato dell’elaborazione teoretica quale ricerca dei principi come i soli che possano dare conto della spiegazione della realtà nella multiformità del suo “apparire”. Il progresso della scienza, a dispetto dei due grandi fisici, è stato possibile proprio lungo il filo delle arditezze del logos che fissava e prefigurava le strutture concettuali e metodologiche della ricerca nel campo sempre più ampio della scientia naturalis. Per carità di patria – come si suole dire – omettiamo di far riferimento a quello specifico settore dell’elaborazione filosofica che va sotto il nome di Epistemologia, determinante per “indirizzare” la ricerca scientifica, fissare i fondamenti, le strutture logiche e i metodi delle diverse discipline scientifiche. Senza contare che la filosofia è stata la “guida” e la “maestra” dei grandi rivolgimenti storici, a cominciare esemplarmente proprio da Aristotele, che fu educatore e insegnante di Alessandro Magno; per continuare con le più significative Rivoluzioni che hanno segnato le importanti svolte storiche, dietro alle quali c’erano le grandi costruzioni teoretiche della Filosofia.

E però l’utilità della Filosofia non può essere confinata nel pur grosso settore dell’epistemologia, perché essa attiene alla dimensione propria dell’uomo, al suo vivere “con” e “nel” mondo della socialità e della prossimità, a quella realtà che fa di noi ciò che siamo e che saremo.

Proprio oggi che la socialità e le relazioni umane in genere sono dominate e governate dalla scienza e dalla tecnologia, sua figlia più illustre e identità più utile, diventa impellente e necessario il ritorno alla dimensione apparentemente più inutile del pensare filosofico. A quella filosofia che un tempo è stata ispiratrice delle elaborazioni che hanno presieduto alle trasformazioni sociali o ne hanno sostenuto le forze strutturali propulsive; ma che con la post-modernità ha rinunciato al suo ruolo e alla sua funzione. Ha cessato di essere organica alla società, come lo era nella laica tradizione greca e illuministica o in quella solare ed esuberante del Rinascimento o nell’altra totalizzante a cavallo degli ultimi due secoli.  Si è rifugiata nel cantuccio comodo del proprio individualismo “accademico”, produttivo di remunerati consensi di parte. Sedotto dalla celebrità del momento, il filosofo si è ridotto ad occuparsi di ciò che il grande pubblico vuole, di ciò che dà applauso e consenso, insomma del futile e del mutevole. E così i filosofi-intellettuali sono diventati banali intrattenitori di salotti televisivi, laudatores del politico di turno. E avrebbero ragione i citati detrattori di ritenere inutile questa parvenza ed epifenomeno della filosofia diluita nei rivoli accattivanti dell’effimero.

Occorre riprendere il filo profondo del logos per ripensare ciò che negli anni 1962/’63 il mio indimenticato docente di Filosofia Morale, Aldo Masullo, riteneva essere il fondamento, per così dire, ontologico dell’essere-nel-mondo, ad un tempo dell’individuo e della società. Insomma l’intersoggettività come fondamento del sé, dell’autocoscienza quale libertà dell’uomo sociale che dall’essere dominato diventa il padrone e dominatore di scienza e tecnica, secondo il telos che esalta il rapporto con l’altro attraverso la dimensione dell’amore.

La crisi vera della società globalizzata post-moderna, da Bauman felicemente definita “liquida”, e la violenza del capitale finanziario che l’accompagna, non troveranno soluzione proprio perché la Filosofia ha rinunciato al suo tradizionale compito di “utilità” e tace perduta com’è tra i richiami servili e falsi della prevaricazione “scientifica” venduta ai voleri dell’egoismo finanziario.