Il Renzismo dimezzato

Angelo Cennamo

Si dirà che le regionali sono elezioni diverse da tutte le altre e che la politica italiana è così magmatica da rendere impossibile qualunque previsione futura o raffronto col passato. Tutto vero. Ad ogni modo, pur considerando la specificità del caso e le variegate componenti del voto espresso, il dato saliente di questa tornata elettorale resta il crollo del Partito Democratico rispetto ai numeri delle europee. Il 41% conseguito appena un anno dal Pd aveva scompaginato i piani del centrodestra più moderato e allarmato la minoranza interna alla sinistra, svuotata della propria identità postcomunista. Si cominciò a parlare di “partito della Nazione”, ovvero di un unico contenitore politico che, rompendo gli schemi dell’attuale bipolarismo, facesse in qualche modo rivivere la tradizione centrista della democrazia morotea della prima Repubblica. Le urne ci avevano consegnato un Matteo Renzi padrone assoluto della scena politica, complice il vuoto creatosi nell’area berlusconiana – orfana del Cavaliere, impegnato in quel di Cesano e assente dalla programmazione televisiva – e la crescente componente radicale No-euro e anti-sbarchi della destra leghista. Quello scenario oggi non esiste più, per una serie di ragioni. La prima. Il tesoretto di consensi accumulato dalla novità Renzi nei primi mesi del 2014 si è via via prosciugato a causa delle mancate promesse del premier. Dati alla mano, l’Italia è messa anche peggio del 2011, anno in cui il governo Berlusconi (l’ultimo eletto dai cittadini) fu archiviato sotto i colpi della tecnocrazia di Bruxelles e delle manipolazioni dello spread. Il debito pubblico, la spesa, la pressione fiscale e la disoccupazione sono cresciuti. Nella politica estera contiamo poco o nulla, nonostante il semestre europeo appena conclusosi, e tra tutti i paesi della zona euro il nostro pil è quello che cresce meno. La seconda. Per quanto la rottamazione renziana della vecchia guardia, all’interno del Pd, sia un processo ben avviato, essa tuttavia stenta ad affermarsi in alcune aree del Paese. Le vittorie di Emiliano in Puglia e di De Luca in Campania  lo dimostrano. Emiliano e De Luca non soltanto hanno poco a che vedere con il renzismo ma sono figure addirittura avulse dal partito Democratico. Entrambi hanno un forte radicamento sui territori che amministrano da molti anni e le loro personalità borderline ed autoritarie li fanno apparire più di destra che di sinistra. In Puglia e in Campania vincono loro e le liste civiche che li supportano, prima ancora del Pd. La terza. Sull’affermazione di Vincenzo De Luca – com’era già noto prima che in Campania si facessero le primarie – incombono mille interrogativi. La legge Severino vieta all’ex sindaco di Salerno di governare e di nominare propri sostituti. Seguitemi. Il decreto che Renzi da qui a poco dovrà emettere nei confronti del più votato ( in tempi rapidi per non cadere nell’accusa di abuso d’ufficio) non disporrà la sospensione del neogovernatore ma si limiterà a dichiararla: a sospendere De Luca, infatti, è la stessa legge Severino, non occorrono ulteriori provvedimenti. Una bella gatta da pelare per il giovane premier e per il Pd, come se non bastasse, alle prese anche con l’affaire Bindi. Messa così, l’affermazione dei Democratici per 5 a 2 rischia di sbiadirsi dietro il commissariamento di una delle Regioni più importanti e lo spettro di nuove elezioni. A proposito: chi lo pagherebbe il danno erariale per questa inutile pantomima?