Il Natale visto dal Beato Newman

don Marcello Stanzione

 Jonh henry Newman nasce a Londra il 22 febbraio 1801. Il padre è un banchiere dalla religiosità incerta, la madre discende dagli ugonotti francesi. E’ un ragazzo alto e magro, dagli occhi grigio-scuri, intelligentissimo. A 10 anni ha la certezza di essere chiamato a “servire la gloria di Dio”; a 15 incontra Dio “non come una nozione, ma come una persona che mi disse “Tu””. I suoi studi sono una carriera rapida e brillante: entrato all’ “Oriel College” dell’Università di Oxford a 21 anni, nel 1822 è promosso “fellow”, membro con borsa di studio. Nel 1824 è ordinato prete anglicano e diventa tutor, professore assistente. A 27 anni è parroco di Santa Maria di Oxford, ma conserva la docenza universitaria e pubblica opere di patrologia e di storia della Chiesa. E’ uno dei cervelli della Gran Bretagna, ma è insoddisfatto e cerca la verità attraverso una nuova strada. Predica al popolo ed è ascoltatissimo; affascina i giovani di Oxford con le sue lezioni, ma è insoddisfatto della sua fede. Nel luglio 1833 compie un lungo viaggio in Italia. A Roma avverte il lacerante contrasto nel suo animo: l’avversione al Papa – i cattolici, dagli anglicani sono spregiativamente chiamati papisti- e il fascino della roccia di Pietro su cui poggia la Chiesa. Incontra il sacerdote Nicola Wiseman, rettore del Collegio inglese, desideroso di ridare dignità ai cattolici d’Inghilterra, da secoli reietti in patria: con cui parla a lungo (Wiseman diventerà cardinale arcivescovo di Westminster). Il viaggio prosegue in Sicilia, dove si ammala gravemente, ma è sicuro: “Non morirò perché ho un lavoro da compiere in Inghilterra”. Guarisce e prega: “O Dio, luce gentile, guidami tra le tenebre. Nera è la notte, lontana la casa: guidami tu. Amavo scegliere la mia strada, ma ora guidami tu” Rientrato a Oxford, si unisce a un gruppo di anglicani che trattano problemi spinosi: la vera natura della Chiesa, il rapporto con la Tradizione, l’autorità papale. Sotto il suo pulpito si accalcano numerosi fedeli. Il 24 settembre 1843 vi sale per l’ultima volta e rivolge i rimproveri più dolorosi e severi alla Chiesa anglicana. Trascorre un periodo di silenziosa meditazione e di travagliata riflessione. L’8 ottobre 1845 davanti al passionista Domenico Barberi della Madre di Dio pronuncia l’abiura dell’anglicanesimo e diventa cattolico. Scriverà: “Fu per me come entrare in un porto, dopo una crociera burrascosa. La mia felicità è senza interruzione”. Gladstone, premier britannico, commentò : “Mai la Chiesa romana, dopo la Riforma, ha riportato una vittoria più grande”. La sua conversione è un evento e molti lo imitano: in un anno saranno oltre 300 le conversioni di intellettuali, professori, teologici. Intanto Newman va  a Roma. Nel collegio di Propaganda Fide completa gli studi teologici e il 26 maggio 1847 riceve l’ordinazione sacerdotale. Incoraggiato da Pio IX, torna in patria. Ormai cinquantenne vive la stagione più bella perché è sicuro di aver raggiunto la Verità, di essere in comunione con Cristo, la Chiesa e il Papa. Entra nell’Oratorio di San Filippo Neri e fonda oratori a Maryvale, Birminghan, Londra, Edgbaston. Ma arriva un periodo di grandi prove. Newman si trova solo e incompreso. Ma nulla lo scoraggia. Nell’oratorio di Birmingham si occupa dell’educazione intellettuale e morale dei ragazzi e dei giovani con bontà e amorevolezza. Don Bosco aveva saputo di lui e della sua conversione e lo apprezzava molto. Nel 1879 Leone XIII lo crea cardinale ed egli commenta: “Le nubi sono cadute per sempre”. L’11 agosto 1890 l’indefesso cercatore della verità va incontro al suo Dio “luce gentile”. Sulla tomba vuole scritto “Ex umbris et imaginibus in veritatem”, dalle ombre e dalle figure alla verità. Il papa Benedetto XVI lo beatifica il 16 settembre 2010 durante il suo viaggio apostolico nel Regno Unito. I sermoni tenuti da Newman, giovane parroco anglicano, nella chiesa di St. Mary di Oxford, durante 15 anni, costituiscono una summa teologica, moderna e per taluni aspetti assai originale. Tra questi uno, riguardante il Natale, dal titolo “L’Incarnazione, mistero di grazia” sarà oggetto della nostra attenzione. La meditazione natalizia di Newman prende le mosse da una verità di fede, fondamento e specificità del cristianesimo: l’Incarnazione. La nascita del Salvatore nella carne “è l’idea centrale del cristianesimo e da essa provengono gli altri aspetti della sua dottrina: i sacramenti, la gerarchia, l’ascetismo”. Secondo Newman assumendo la natura umana, il Verbo è divenuto “il primogenito di ogni creatura”, nostro fratello, e ci eleva alla dignità di figli di Dio. Compreso dalla ricchezza e profondità di questo mistero, Newman ne indica alcuni aspetti per noi particolarmente significativi. Innanzitutto, il Natale svela all’uomo una nuova dimensione e una nuova profondità di essere; gli indica cioè la possibilità di trascendersi ed elevarsi alla dignità di figlio di Dio. Newman prima definisce l’eternità e la dignità del verbo incarnato, poi afferma che, con l’Incarnazione, quanto appartiene al verbo è trasmesso all’uomo: la vita in Dio, dunque l’eternità; la rinascita in Cristo, dunque la dignità divina. Il motivo profondo che spinge Newman a riaffermare la centralità e la realtà dell’Incarnazione è l’urgenza di ricordare all’essere umano la sua dignità: all’uomo insidiato dall’idolatria sempre più chiassosa, e dalle ideologie materialistiche, positivistiche e immanentistiche. La contemplazione del Natale conferma Newman in un  preciso convincimento: senza la luce di Cristo siamo tutti sbandati. Newman ha intuito un processo di degrado e di smarrimento. Un altro convincimento invade l’animo di Newman nella festività del Natale. Nascendo tra noi, il Verbo ha vinto la nostra solitudine. Essa avvelena la vita; incute paura, oscura gli orizzonti. Con l’Incarnazione avviene “una nuova e invisibile creazione”: il Verbo diventa l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Non si è più soli. L’invito alla santità e l’impegno per realizzarla è un altro elemento che Newman avverte meditando il Natale. “Cristo ha preso la nostra natura, e in essa e per mezzo di essa ci santifica”; “Accostiamoci a colui che santifica per essere santificati”. Newman termina il suo sermone rivolgendo ai suoi uditori un augurio semplice e cordiale: “Che ogni nuovo Natale ci trovi sempre più simili a colui che, in questo tempo, è divenuto un bambino per amor nostro; che ogni Natale ci trovi più semplici, più umili, più santi, più caritatevoli, più rassegnati, più lieti, più pieni di Dio”.