Spontaneismo e forconi, oltre l’anti-politica

Amedeo Tesauro

Se si parla di Beppe Grillo e del suo movimento una parola sopraggiunge con puntuale frequenza, ovvero anti-politica. Termine in verità forviante, perché ad esso spesso si associa un moto irruento e sprovveduto, un attacco a testa bassa, avverso alla politica. Se ciò è certamente vero in parte, allo stesso tempo va considerato come l’anti-politica sia una forma di politica essa stessa (l’anti-eroe non è forse, pure lui, un eroe?), per giunta redditizia come poche altre in tempi di crisi. Nel corso dell’ascesa grillina non in pochi avevano fatto notare come dietro ai cinque stelle si raggruppasse una folta schiera di individui che altrimenti avrebbero disertato le urne scadendo nei territori della non politica, nei flussi estemporanei e qualunquisti dalla natura incerta e dalle prospettive nulle. Il Movimento dei Forconi rappresenta quel passo più in là, quell’andare oltre il dissenso grillino per raggiungere un rifiuto totale del sistema senza una direzione di marcia. Perché la prima cosa che si nota del Movimento è la natura ambigua delle sue richieste, ammesse che queste vi siano per davvero. A seconda del presidio si protesta contro l’euro, la casta, le tasse, il parlamento incostituzionale, per il non supporto agli alluvionati e in certi casi perfino per i marò. C’è rabbia nell’aria, ma indirizzata in modo così astratto da apparire un populismo macchiettistico, un’esplosione spontanea eppur vuota come poche se ne ricordano. Del resto il Movimento è frammentato in sé, poco chiara è la natura di chi vi sia dietro, tra voci che chiamano in causa l’estrema destra (che pur in alcuni casi è stata invitata dai manifestanti ad andarsene) ed altre che proclamano un assoluto spontaneismo, nonché l’ombra di appoggi mafiosi. Certo è che un movimento che non esprime una posizione unica e che non ha rappresentanza parlamentare, considerato il rifiuto da parte dei manifestanti di ogni sigla partitica, è destinato ad esaurirsi senza concludere nulla, riemergendo casomai di volta in volta. Eppure c’è l’altra faccia della medaglia, la considerazione storica che chi protesta quasi mai è un fine stratega con la visione d’insieme, che anzi la visione d’insieme poco ha da dire contro l’irruenza, tant’è che i più avventati del movimento parlano di golpe evidenziando uno sbocco impossibile ma logico in assenza di rappresentanza. Al di là della competenza di chi si getta in certe proteste, forse bisognerebbe interrogarsi sui motivi che portano la gente in piazza piuttosto che sulla circostanza in sé, confusa e confusionaria. Altrimenti il rischio è alto: sminuire ogni movimento di piazza come populista rischia di far perdere contatto con una base della società ormai stremata, stimolando implicitamente una violenza che in alcune zone è già emersa. La politica, volutamente altrove, può rinchiudersi nelle sue vicende di palazzo aspettando che la protesta si esaurisca? Può senz’altro, ma è chiamata a tener d’occhio la piazza per evitare degenerazioni, pensando non ai soggetti in gioco ma alle motivazioni dietro di essi.