La guerra al tempo dei social network

Amedeo Tesauro

Mentre la diplomazia internazionale si adopera per venire a capo della situazione siriana, ormai degenerata, dal fronte arrivano le notizie sui movimenti interni e sulle tensioni che animano il paese. Oltre ai soldati e ai civili, i luoghi di guerra vedono la presenza costante dei cronisti provenienti da tutto il mondo, pronti a recuperare informazioni e trasmetterle al mondo esterno. Il racconto della guerra è una storia a sé, affascinante e pericolosa quanto il conflitto primario, fatta di giornalisti in missione e dei loro scoop destinati al mercato dell’informazione. I tempi sono cambiati, ogni guerra ha visto nuove dinamiche  e nuovi mezzi di comunicazione impegnati, così il progresso tecnologico militare si è affiancato a quello comune. Ai tempi delle guerre mondiali la fonte di notizie era la radio, un medium gestito dallo Stato e come tale di parte: le gesta eroiche dei propri uomini venivano glorificate e messe al confronto con la cattiveria nemica, al fine di convincersi delle proprie ragioni. I giornali, non da meno, si prestavano ugualmente alla propaganda. Sia la radio sia i giornali sono distanti, mentre la TV offre in presa diretta le immagini della carneficina. Così ai tempi del Vietnam, l’individuo al sicuro nella sua abitazione scoprì cosa significasse fare la guerra, vedendo coi propri occhi i corpi e gli spari, le battaglie e la vita ordinaria in quei luoghi. Si può sostenere a ragione che l’opposizione a quella guerra maturò tanto più la TV si impegnò a documentarla, giacché dava consapevolezza agli individui di cosa volesse dire per davvero intervenire in quel paese. Merito della TV certamente, ma anche dei giornali che ospitavano corrispondenze sempre più nel centro degli eventi, coi giornalisti affiancati alle missioni militari a condividere la vita dei soldati (su tutti basti citare la nostra Fallaci). Fu la prima guerra in cui i media entrarono prepotentemente sulla scena, una presenza forte da ridisegnare le regole, tale che i governi successivamente si preoccuperanno di “limitare” l’invadenza di microfoni e telecamere, americani in primis, i quali, imparata la lezione, tentarono di limitare l’afflusso di notizie durante la guerra del Golfo. Ed oggi? Il racconto della guerra al tempo dei social network è ancor più rivelatore, perché non lo fanno solo i giornalisti sul posto, ma anche i civili col cellulare e gli smartphone, e sono finiti i tempi in cui mandare un’informazione rischiava di essere difficile quanto reperirla. C’è internet, subito in Rete alla vista di tutti. La stessa Rete che forma una propria opinione e appoggia/si oppone a quanto avviene, costituendosi come un collettivo globale pronto a dissentire o approvare (l’opposizione al Vietnam, ovviamente localizzata per lo più in America, appare una piccola rivolta in confronto). La stessa Rete che si informa e inizia a guardare le cose sia oltre la propaganda dei tempi radiofonici sia oltre il racconto proposto dall’immagine televisiva, e vede tanto il regime di Assad quanto un composito fronte di ribelli che offre pochissime garanzie.

 

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