La deindustrializzazione del nord del mondo

Giuseppe Lembo

È nell’ultimo trimestre 2008, la data di avvio di un lungo processo di crisi devastante di cui proprio non si riesce a vedere la fine. Si tratta di un processo che già dava i suoi primi segnali forti; all’inizio covava silenziosamente in tante parti del mondo industrializzato. Nel 2009 la crisi per molti aspetti sotterranea esplode con tutta la sua violenza  e la sua forza dirompente. Comincia così quel processo di deindustrializzazione del Nord del mondo, un processo tutt’ora in atto e di cui è assolutamente impossibile prevedere la fine. Nel 2009, a tanti tornano in mente gli anni bui degli anni trenta o ancora peggio. Il PIL del G7 scende del 3% o poco più; la produzione industriale di alcuni Paese di circa il 15%, mentre la Germania e l’Italia arrivano a toccare punte del meno 19%.Le radici di una depressione economica dalle gravi proporzioni sono da ricercare soprattutto nell’aumento del prezzo del petrolio nella metà degli anni settanta. L’effetto trascinante è l’aumento delle materie prime; aumentano anche i costi di produzione nel settore manifatturiero. Ma la crisi non si ferma qui; continua con altre sconvolgenti cause quali l’informatizzazione dell’economia che mette in crisi i vecchi sistemi gestionali ed organizzativi fortemente caratterizzati dalla presenza umana. Il PIL scende ovunque; il Nord del mondo perde colpi con un manifatturiero che in Germania ed in Italia si assottiglia di anno in anno, riducendosi del 18% o peggio ancora del 23%. Si vanno manifestando, in maniera assolutamente sorprendente, i primi forti segnali di una tendenza non prevista di una forte e sconvolgente deindustrializzazione del Nord del mondo. Partendo dal mondo della produzione, frutto dell’ingegno e di un attivo impegno delle risorse umane da sempre protagoniste ed a capo in tutti i cambiamenti epocali e quindi al centro di ogni sviluppo possibile, il Nord del mondo manifesta una certa sofferenza con una divisione in due diverse realtà; tanto per effetto dei trend dell’industria e dei servizi. Intanto si ha un aumento dei debiti pubblici soprattutto in America, in Germania ed in tutto il Nord Europa, Italia compresa. L’aumento del debito pubblico non registra l’ulteriore accrescimento dei costi, per cui i Paesi indebitati hanno continuato ad indebitarsi a condizioni favorevoli. In alcuni Paesi dell’Europa mediterranea, con l’esplosione del debito pubblico si è invece innescato un processo fuori controllo con lo spread alle stelle (proprio come oggi in Italia), facendo inevitabilmente aumentare il costo del finanziamento sul mercato per le Banche e le aziende. E così, continuare oggi a fare impresa ed industria soprattutto nelle difficili condizioni economiche dell’Europa del Sud, è diventato pressoché impossibile ed assolutamente poco competitivo; ogni investimento è un investimento ad alto rischio e senza garanzie di successo. In America e nell’Europa centrale e settentrionale torna la buona salute delle industrie, portando con sé una condizione di crescita diffusa; tanto, tra l’altro, per i bassi costi del credito, per l’export in crescita e per una rinata e diffusa fiducia per nuovi investimenti da parte di imprenditori coraggiosi, spinti dal trend positivo dell’economia. Un attivo processo di reindustrializzazione e di un ampio recupero a livello macro-economico del settore manifatturiero ha salvato la Germania, facendola uscire dal guado e portandola ad un PIL del 22,5% rispetto al 19% del 2009. Tanto è positivamente successo anche agli Stati Uniti d’America con un PIL risalito al 13%, dopo essere sceso all’11% nel 2009. In Italia, purtroppo, il manifatturiero è continuato a ristagnare, non riuscendo a risalire per varie situazioni e con cause dovute ad una depressione economica con una conseguente grave recessione che ci fa oggi trovare con la bella percentuale dell’11% di disoccupati.  L’Italia, per salvarsi, deve avere il coraggio e la capacità di investire; deve attivare i necessari meccanismi di lavoro e di occupazione, i soli che possano contribuire a far crescere il PIL e quindi la ricchezza, con la quale e solo con la quale, si può uscire dalla morsa dello spread che a lungo andare ci strangola,  con una speculazione aggressiva che, non darà respiro, facendo così affondare il Paese nell’abisso di un fallimento mortale che assolutamente non possiamo permetterci, se ancora vogliamo continuare a significare qualcosa in Europa e nel mondo e ad avere un ruolo italiano nel mondo globale dell’industria e dell’economia, un mondo che non perdona e che non ci permette altri errori e non consente prove di appello a chi sbaglia. Nell’attuale momento storico-politico ed economico, gli aspetti più gravi delle sofferenze d’Italia sono soprattutto di tipo esterno, nel difficile confronto con i Paesi dell’Unione Europea. Purtroppo da parte di alcuni di loro c’è una pressione assolutamente innaturale nei confronti dell’Italia, ridotta sempre più a “colonia atipica” dell’Europa ed ormai sprofondata nella dipendenza dei compiti a casa soprattutto da parte della Germania, per cui siamo diventati un Paese – colonia sempre più dipendente dagli altri, avendoci autocancellato la dignità di pari tra  pari; e così, da partners e protagonisti ideatori dell’insieme europeo, siamo diventati dei servi sciocchi a sovranità limitata.