La religiosità popolare

Come nasce e perché nasce la religiosità popolare? Anzi, come e perché nasce la religiosità, sia come fenomeno spontaneo, individuale, sia come fenomeno indotto, sia, cioè, come religiosità più o meno spontanea, correlata all’indole dell’uomo, del singolo individuo, sia come religiosità organizzata e collettiva? Si può dire, senza sbagliare, sulla scorta di tanti pensatori, che si sono posti il problema ed hanno tentato di dargli una risposta, che la religione, o meglio la religiosità, nasca con l’uomo, nel senso che questi, confuso, stordito e sbalordito dai tanti fenomeni celesti e terrestri, colpito dal mistero dei sentimenti propri e altrui, ha avvertito il bisogno di guardarsi attorno, di alzare gli occhi al cielo e darsi una spiegazione delle cose. Prima di tutto, ha confidato nei maghi e nella magia, della quale hanno approfittato gli impostori, poi si è rivolto allo stregone, come all’uomo capace di sconfiggere il male e di esorcizzare i fenomeni perversi della natura. Poi è toccato ai sacerdoti (ma qui il livello è molto salito) ed infine al filosofo scienziato. I pagani del mondo antico inventarono gli oracoli, sorta di santuari, visti come la casa della divinità che interpellavano su tutte le cose che dovevano fare e sul loro futuro, e le sibille (famosa per noi è la Sibilla cumana, di cui ci ha parlato Virgilio). Oggi fioriscono i chiromanti, i veggenti, i cartomanti, i pranoterapeuti, oltre ai santoni di lontana provenienza, che si circondano di belle ragazze, certamente disponibili, e fanno il giro del mondo. Un posto importante nella credenza popolare hanno tuttora gli “nciarmatori”, che vengono preferiti ai medici, soprattutto per “nciarmare” l’erpes, altrimenti detta fuoco di sant’Antonio e per scongiurare la sciatica. Sono tanti i ciarlatani, ma si accreditano come tramite e come intercessioni tra l’Ente misterioso, Colui che tutto può e che tutto sa, e le masse di ignoranti, che vorrebbero capire, che vorrebbero conoscere il loro destino futuro e vincere la paura delle malattie e della morte, che è il mistero dei misteri e l’evento che più fa pensare ai vivi; dei morti non sappiamo, appunto perché sono già morti e non dovranno temere una seconda morte. Secondo mia nonna, i morti sono beati, perché non dovranno più morire. La questione, in realtà, è molto antica e la Chiesa ha dovuto occuparsene molte volte, per tentare di porre un argine alle credenze arbitrarie dei fedeli, senza mai riuscirci interamente. Tuttora ci sono persone che nutrono più fiducia nei maghi, negli “nciarmatori” e negli stregoni che nei medici e nella medicina ufficiale. La Chiesa, fino al Concilio Ecumenico Vaticano II, ha fissato le regole a cui debbono attenersi i cristiani, soprattutto quelli di fede cattolica, ma, alcuni secoli prima, ha dovuto fare i conti con il Concilio di Trento, che, come tutti sanno, tenne dietro alla Riforma protestante. Tuttavia altro è fissare la dottrina, anche rigida, come successe a Trento, altro è comunicare le verità della fede al popolo, formato da contadini, artigiani e, comunque, da gente di poca o di nessuna cultura, o ancora sotto l’influsso delle credenze pagane. In questo, a giudizio di tutti gli studiosi che si sono occupati della materia, dal beneventano Amalio, al Meomartini, allo stesso mio amico Raffaele Matarazzo, a Don Giovanni Giordano, morto e rimpianto, a Don Mario Iadanza, altra testa forte della cultura religiosa beneventana, hanno dato atto al basso clero ed agli ordini religiosi di essere riusciti a comunicare bellamente con il popolino, servendosi non della lingua latina aulica, e neppure di quella parlata correntemente dalla Chiesa, ma del dialetto, per poter esemplificare e fare intendere a tutti le regole della fede cattolica. Certo, il Concilio tridentino creò dei problemi, soprattutto quando pretese di applicare con rigidità gli insegnamenti del Concilio. Il tutto, insomma, fu scaricato sull’abilità e sull’intuito del basso clero, capace sempre di comunicare con il popolo. Ci sono episodi molto significativi al riguardo, che non riferisco soltanto per brevità. La lingua ha rappresentato sempre un problema per la Chiesa, a cominciare dai dotti dei primi secoli del Cristianesimo fino al Concilio Vaticano II, fino a quando, cioè, è stato necessario sostituire il latino, lingua ufficiale della Chiesa, con le lingue nazionali che il popolo riesce a capire meglio. Tuttavia la religiosità popolare, anche quando confonde gli elementi del sacro con quelli profani, e magari l’azione di un santo ritenuta benefica con quella di un mago o di un ciarlatano, è espressione di quella che è stata chiamata “fame del sacro”. Il punto, insomma, è che il popolo ha ancora oggi una “gran fame di santità”, che lo porta a confondere la fede nel miracolo con l’opera di santoni o santone, sfacciati, imbroglioni ed impostori. La voglia di credere nei santi e nella loro intercessione presso Dio ha poi spinto talune diocesi a canonizzare abusivamente uomini devoti, prescindendo dalla decisione della Chiesa ufficiale. Carlo Levi, nel suo Cristo si è fermato a Eboli, ha parlato di “paganesimo perenne”, che non può essere sradicato dal mondo mediterraneo. Citerei soltanto un ultimo scrittore, sempre per brevità, che la dice lunga, a proposito di un pellegrinaggio notturno del 14 agosto alla Madonna di Materdomini. Si tratta di Domenico Rea, autore di Ninfa Plebea (Leonardo Editore, Milano 1992, poi Oscar Mondadori, Milano 1994). Masse di donne, ammucchiate su dei carretti, guidati da due uomini, che viaggiano tutta la notte alla maniera del Far West, che sparano battute a sfondo sessuale, data la presenza di uomini, ma che pregano anche la Madonna, affinché le porti in Cielo al momento della morte. Legate alle manifestazioni della religiosità popolare sono certamente le feste in onore del Santo Patrono, considerato il vero dispensatore di miracoli e di benessere. Ma le feste servono anche ad allontanare gli spiriti maligni dai raccolti, affinché questi siano abbondanti ed in grado di sfamare la gente. Ogni comunità ha tanti santi e tante feste, ma la festa per eccellenza è quella che si svolge annualmente in onore del Santo Patrono, come la Madonna delle Grazie di Benevento, l’apostolo San Bartolomeo a Benevento, l’apostolo San Matteo a Salerno, San Rocco a Foglianise ed in altre località del beneventano, la Madonna del Roseto a Solopaca, i santi Cosma e Damiano, conosciuti come i santi medici a Tocco Gaudio, senza contare la Madonna di Montevergine, conosciuta come “mamma schiavona”, San Michele Arcangelo sulla vetta del Gargano e San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo. Il popolo, è vero, ha molta fede nei miracoli, ma bisogna anche dire che la Chiesa che lo condanna non è priva di colpe, se propaganda ad ogni piè sospinto i tredici miracoli di Sant’Antonio da Padova, il miracolo di San Gennaro e centinaia di altri miracoli. Senza contare Lourdes, Medjugorje, i santuari spagnoli e sudamericani. Altra importante manifestazione della religiosità popolare è il dramma sacro, una forma parlata e dialogata di catarsi evangelica, studiato molto bene da Don Giovanni Giordano e dal mio amico professor Don Mario Iadanza, che ha fatto il punto della situazione in un opuscolo denso e intelligente. Secondo Don Mario Iadanza, “i drammi sacri contengono la elementare drammatizzazione degli spunti narrativi (spesso rozzi, appena abbozzati, talvolta fantasiosi, per non dire inventati), degli atti dei martiri e del martirologio, ed era significativo che poco riferimento si faceva alla Bibbia e al Vangelo e molto invece alla vita dei Santi: è questa infatti una caratteristica costante e riconosciuta della devozionalità popolare, di aver come interlocutrice non direttamente da divinità, considerata forse troppo lontana, ma di rivolgersi ad essa per il tramite degli amici intercessori, “i Santi”, con cui il popolo sentiva di poter più facilmente dialogare”. Ultimo elemento da considerare sono i canti popolari religiosi, di cui l’Italia abbonda. Basti pensare a quelli composti in onore della Madonna di Montevergine dalle comunità di fedeli della provincia di Avellino, ma anche di Benevento, di Foggia e di Napoli. A questi canti il professor Manfredi Del Donno di Santa Croce del Sannio ha dedicato studi chiarificatori e fortemente significativi. Preciso che il Preside Manfredi Del Donno si è occupato, a più riprese, dei canti popolari, non sempre religiosi, e che quelli religiosi non si riferiscono soltanto a Montevergine, ai quali è stato dedicato un libro intero, che ho letto, scritto da un mio amico e regalatomi come a cultore della cultura popolare. Debbo, inoltre, un particolare ringraziamento al Preside Raffaele Matarazzo, che mi ha aperto la strada, per impostare l’attuale saggio nella maniera in cui l’ho impostato.

Claudio Di Mella