Le lettere sul Natale di San Giuseppe Moscati

Micol Bruni

Ci sono alcuni scritti (direi sono pagine rarissime) di Giuseppe Moscati (in corso ancora le celebrazioni per i 130 anni dalla nascita: 1880, Benevento, 1927, Napoli) dedicate al Natale. Sono due lettere indirizzate ai genitori. Moscati aveva soltanto otto anni nel 1888, la prima lettera, mentre la seconda è dell’anno successivo. Tra queste due lettere si immette una terza, risalente al 1889, scritta, però, per la Pasqua. Le due lettere sul Natale hanno una tenerezza fortemente espressiva e si manifesta con delle parole delicate come possono essere le parole di un bimbetto rivolte ai genitori. Ma c’è commozione, una commozione che si esprime in una semplicità che è fatta di cose naturali e di un senso di carità cristiana che non abbandonerà mai il pensiero e il pensare di Peppino. Infatti egli si firmava proprio con il nome di Peppino. Nella prima datata “Natale 1888” tra le righe si legge: “Io prego Gesù Bambino, affinché vi conceda quella pace, che egli promise agli uomini di buona volontà ed ogni altro bene in questa vita e nell’altra”. È soltanto un passaggio che comunque, pur nella sua genuinità espressiva, fa riflettere. Otto anni e Peppino imposta il suo pensiero in un passaggio che è quello che riguarda la vita terra e la vita che va oltre. Infatti scrive sottolineando “questa vita e nell’altra”. Una maturità cristiana che lo condurrà ad una vita nella misericordia e nell’accettazione dell’altro sempre all’insegna del Cristo che costituirà la centralità della sua vita. Il Natale di Moscati è all’insegna del bene e della pace. Due nodi che si troveranno intatti in tutta la sua problematica esistenziale e professionale. Nella sua professione di medico il bene e la pace interiore costituiscono la chiave di lettura di un confronto quotidiano con l’altro.  Nei suoi “Pensieri”, che sono il ritaglio di annotazioni, di spaccati di lettere, di appunti sparsi il valore della pace e l’affermazione sempre del bene che vice sono incastri che provengono da quel messaggio paolino che guiderà sino alla fine il suo cammino. Nel nome di San Paolo. Così nella seconda lettera datata “Natale 1889”. Annota subito: “Genitori diletti, è questo certamente il più bello, il più puro, il più santo giorno del calendario, giacchè esso ricorda la nascita del Divin Redentore”. Siamo a Natale e Moscati, tra gli intagli delle sue parole, annuncia già una simbologia  che ha degli archetipi sacrali. La Redenzione. Il redimersi nel segno della divinità.  Mi pare che a nove anni Peppino abbia già inquadrato non solo un percorso teologico ma pare che sia entrato nel viaggio misterioso della cristocentricità che rappresenta il Divino Amore, ovvero la Chiesa di Gesù. Proseguendo nella sua lettera tocca tre elementi: nuovamente la pace, l’amore e la felicità. Come per dire che non può esserci felicità senza la pace e senza l’amore. Tre enunciati di una concettualità che resterà fondamentale in una vita vissuta come preghiera. Siamo uomini oranti che aspettano ponendosi in ascolto. Sempre in ascolto. È questo uno dei messaggi chiave di Giuseppe Moscati. Quando afferma semplicemente: “Babbo mio carissimo, dolcissima mamma mia, vi amo, vi amo, tanto, tanto!…”, immediatamente commenta: “Del resto questa espressione così breve e così semplice, è piena di sublime eloquenza, giacché vi vien detta dal vostro piccolo Peppino, il cui rispettoso e fervido affetto vi è troppo noto”. Basterebbe quel “sublime eloquenza” per dare un senso alla priorità dell’umanesimo che ha il cuore di Moscati. Cosa è il sublime a nove anni? E cosa può rappresentare il concetto di eloquenza? Credo che tutta l’esistenza terrena di San Giuseppe Moscati si sia basata su questi termini che sono dei comportamenti, che sono stati dei comportamenti e che si vivono nella fede, soltanto nella fede e il Natale delle lettere ai genitori di Moscati richiama, perché no, la nostra sensibilità ai temi già citati che non bisognerebbe mai dimenticare. Giuseppe Moscati, non è soltanto un esempio o una testimonianza, come si evince dal libro da me curato, per contro del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, dal titolo: “Giuseppe Moscati.  Nella vita nascosta con Cristo in Dio”, ma un misterioso incontro che non ci lascia  perché in ogni sua parola c’è una domanda che è una domanda di umiltà, di carità, di pietà. Facile definirlo il Santo medico dei poveri. È stato anche l’uomo della profezia quando ha fatto una scelta culturale tra carità e scienza, quando ha invitato a non mortificarsi nell’abbandono, quando ha suggerito che Dio non lascia soli e l’uomo non deve lasciarsi aggredire né dalla solitudine né dalle umiliazioni. E questa sua profezia è sempre provvidenza. Non può esserci carità senza il dono della provvidenza. E per Moscati tutto è un dono. Come diventa un dono il pensiero che si santifica pensando alla Pasqua che è bellezza. Nella Pasqua, dice Moscati, “Il mio pensiero si santifica, si purifica, si idealizza, vola là nel Cielo” (“Pasqua 1889”). Dalla Redenzione che vive nel Natale alla purificazione che si idealizza nella bellezza del Cielo. Uno squarcio in un linguaggio che è fatto di grazia ma anche piccoli istanti in cui il vissuto della vita ha una sua estetica. L’estetica della cristianità. Ecco perché sono convinta in questa “sua” vita nascosta con Cristo in Dio. Non è solo un pensiero nel viaggio che ha portato San Paolo alla conversione. È un messaggio in cui la fede supera i confini del mistero stesso oltrepassando i segni della liturgia per fissarsi in questa nostra vita oltre il finito. Il Natale di Giuseppe Moscati ci invita a questa riflessione: “Quando si ama il Signore non si sentono più pene e se ve ne sono diventano dolci. Arrivando ad amare fortemente il Signore, si desiderano e si amano i patimenti” (Moscati pronunciò queste parole a Pompei, come risulta dalla deposizione della Sig.na Emma Picchillo).