L’Italia invecchiata, dal futuro dimezzato

Giuseppe Lembo

 

Il sistema economico del nostro Paese è in continua trasformazione. Sbagliando, si pensa che sia solo il capitale a dover accompagnare lo sviluppo del sistema economico; oltre al capitale, c’è il lavoro che cambia continuamente. Nel lavoro, una componente di importanza rilevante se non addirittura vitale è quella che oggi viene definita “flessibilità”; serve per agevolare il processo di riallocazione produttiva, che è alla base del successo del capitalismo e della sua capacità di soddisfare i nuovi bisogni, aggredendo con forza le fasce degli esclusi. Tutto nella vita ha un prezzo che bisogna pagare; di gratis non c’è proprio niente. Nel nostro Paese le retribuzioni cambiano durante la vita lavorativa degli individui; il lavoratore cinquantenne ottiene un salario maggiore dei lavoratori trentenni; la differenza è data non dal merito, non dalle capacità produttive, ma dall’anzianità di servizio. Il nostro è un Paese “gerantocratico”. La struttura italiana dei salari è crescente per classi di età; in questo c’è una diversità con le altre principali economie europee, dove dopo i 50 anni, la remunerazione, contrariamente a quanto succede da noi, diminuisce nell’ultima parte della vita lavorativa; tanto, per effetto del deprezzamento del capitale umano ad una velocità maggiore rispetto a quella in cui viene ricostituito. Nel nostro sistema i giovani sono gravati dall’ipoteca di un calcolo retributivo che premia l’anzianità sulla produttività. Mentre in altre parti d’Europa i lavoratori più flessibili, quelli a tempo determinato, ricevono maggiorazioni salariali in cambio dell’incertezza occupazionale, da noi è, purtroppo, l’esatto contrario. L’Italia ha, tra l’altro, un sistema economico caratterizzato da grandi ineguaglianze geografiche. Al Centro Nord le remunerazioni sono di circa il 20% più alte che al Sud. È da 15 anni che l’economia italiana cresce molto meno degli Stati Uniti e degli altri Paesi europei. Il nostro sistema economico deve necessariamente cambiare; il cambiamento passa attraverso il mercato del lavoro riformato, capace di riallocare i lavoratori verso impieghi più produttivi. Per questo obiettivo occorre una maggiore flessibilità e diversi e più virtuosi comportamenti sindacali, il rivendicazionismo vecchia maniera non giova a nessuno; tanto meno ai lavoratori. Le remunerazioni dei lavoratori italiani crescono con l’età; anche questa è un’anomalia da riconsiderare. L’economia italiana deve cambiare profondamente per sopravvivere. È una necessità per la stessa sopravvivenza del modello di sviluppo italiano che, stando così le cose, rischia a breve l’africanizzazione, con grave danno per il futuro del Paese e soprattutto per i giovani che sono destinati a diventare adulti senza alcuna speranza di avere per sé un futuro possibile. La situazione italiana dall’economia alla società, all’invecchiamento della popolazione, senza alcun ricambio generazionale, è ad un punto di quasi non ritorno. È difficile, difficile, difficile. Manca al Paese quella normalità alla base di ogni possibile progetto di futuro che si costruisce con l’entusiasmo e la solidarietà del protagonismo d’insieme, purtroppo, da noi, merce sempre più rara; è in forte crisi, per la sfiducia diffusa ed il senso di solitudine profonda, dominanti di un Paese non più normale, per cui sempre più alla deriva.Senza catastrofismi, bisogna saper leggere nella realtà delle cose, nella crisi che rende difficile il rapporto tra la politica-potere e la società, il rapporto tra il mondo del lavoro e la produzione; tutti sono contro tutti. In questo clima di scontro finalizzato ad eliminare l’altro, non si va da nessuna parte. Non c’è alcuna certezza; non c’è, se non camminando insieme, ad attenderci un futuro possibile, con i giovani, protagonisti del loro domani, con le radici da ricercare nel passato dei loro padri, gli anziani che cedono il governo della società ai loro figli.