Il lato umano della Sanità: Riceviamo e Pubblichiamo

 Giovanna Rezzoagli

Molte persone si confrontano ogni giorno con patologie, personale sanitario e burocrazia. E’ un mondo complesso, multi sfaccettato. Un universo fatto da un lato di persone che stanno male, che soffrono, dall’altro di persone che lavorano e si prodigano, tante volte con dedizione, in alcuni casi con superficialità colpevole. Operando presso il “Tribunale per i diritti del malato”, ogni settimana raccolgo segnalazioni e denunce di episodi di varia natura, ma accomunati dalla caratteristica di essere negativi. Mai, in un anno di consulenza presso questa istituzione, mi è capitato di raccogliere una parola di apprezzamento o di riconoscimento per l’operato di medici, infermieri od impiegati. Avendo io stessa lavorato in contesto sanitario, sono perfettamente consapevole che i disagi ed i soprusi sono una realtà concreta per molti pazienti, che l’errore umano in medicina esiste e che il buon medico, quello “di coscienza” è il primo a soffrirne, mentre quello che sbaglia per superficialità o colpevole negligenza si trincera dietro i numeri e le statistiche. Quando si lavora all’interno della rete assistenziale si tende a sottostimare il lato umano del paziente e dei suoi congiunti, molte volte per pure e semplici ragioni di equilibrio interiore, altre volte per l’indifferenza indotta dalla routine. Ma quando ci si trova a rivestire gli ingrati panni di un parente di un paziente, la propria realtà si capovolge. Si darebbe tutta la propria vita per essere al posto del proprio caro, e invece no, devi assistere impotente e confidare nell’altrui professionalità. Perché di fronte alla malattia siamo tutti uguali, piccoli, indifesi e spaventati. Nell’ultimo anno la vita, per due volte, mi ha proiettato in due situazioni personali che segnano. Che cambiano per sempre la visione di quella stessa vita, non importa se sei un counselor, se certe cose le hai studiate e sai perfettamente come funzionano. Non importa se sai che un medico è un essere umano come te, che è fallace, che può sbagliare, se un tuo caro sta male pendi dalle sue labbra e ciò che da quelle labbra per te è la verità. Settembre 2008, una mattina mio marito si sveglia con una forte cefalea, apparentemente un disturbo banale, ma poi subentrano turbe visive. La situazione non migliora e ci rechiamo per prudenza al vicino pronto soccorso. Entriamo col codice verde, che in quel contesto indica un problema non particolarmente grave. Dopo una visita oculistica che esclude patologie all’apparato visivo, dopo tre ore il medico di guardia dispone una TAC ed una visita neurologica. Senza tanti preamboli mi comunicano che mio marito presenta una lesione cerebrale, causa del dolore e del deficit visivo. Il medico di guardia mi convoca in uno studio e mi spiega che mio marito sarebbe affetto da un tumore cerebrale con scarse possibilità di sopravvivenza, che potevo ringraziare la sua lungimiranza nel sottoporlo alla TAC, sufficiente, per la sua esperienza, a confinare il caso come tra i più frequenti e che da quel momento “avrebbero gestito loro la situazione”. Ricovero immediato per mio marito ed un invito a portare il necessario per lui a me. Ancora oggi non so come ho fatto a lasciare l’ospedale, tornare a casa da mio figlio e ripartire per l’ospedale. I giorni successivi sono un buco di dolore, paura, panico e speranza. Dopo un mese di esami ripetuti, la diagnosi definitiva parla di un infarto ischemico, raro ma non impossibile. Niente tumore, non tre mesi di vita. Grazie solerte dottore, per la diagnosi sbagliata e per l’inferno cui ci hai condannato. Domenica scorsa l’altro affondo. Per una strana ed irrazionale intuizione, decido di controllare la bocca di mio figlio: non ha ancora completato la permuta ed ha problemi di malocclusione dentale. Noto un gonfiore sul palato che non ha ragion d’essere, applico un antisettico locale e la sera ricontrollo: la ragione tenta di negare l’evidenza. Mio figlio ha una escrescenza, una neoformazione. Di corsa dalle guardia medica, per sperare di avere disconferma di ciò che la parte razionale di me già aveva compreso. Lunedì di corsa dal dentista, resezione della lesione e, alle sei di sera il mio bussare alle porte del reparto di anatomia patologica. Trovo una dottoressa che mi apostrofa,con ragione, dicendo che non mi trovavo in una lavanderia ove entrare a tutte le ore. Le spiego che mio figlio ha solo tredici anni, non le serve altro: biopsia d’urgenza, senza richiesta, senza burocrazia, nulla, solo la richiesta di una madre terrorizzata. L’indomani un dottore gentile chiama per informarci della trafila di esami cui sottoporranno il campione biologico per giungere il più presto possibile alla diagnosi, passano due giorni da incubo, la risposta non è chiara e occorrono altri esami, noi genitori tutti i giorni tenuti al corrente costantemente. Ieri un dottore felice chiama per dirci che la grande paura è passata, la lesione ha origine infiammatoria e guarirà senza problemi. Nessuno tra i dottori di quel reparto era tenuto ad accettare la mia richiesta, potevano seguire la burocrazia ed obbligarmi a presentare richiesta, aspettare i tempi tecnici. Nessuno di loro era tenuto a telefonare per confortare, cercare di tranquillizzare, nessuno di loro era obbligato a chiamare venerdì sera per comunicare che era tutto passato, che potevamo stare sereni. Eppure lo hanno fatto. Non esiste un grazie per queste persone, per la loro dedizione, per la contentezza che per primi avevano quando hanno potuto dare una risposta positiva alle mie domande mute. Per oltre un anno mi sono sforzata invano di dimenticare il volto del dottore che ha erroneamente diagnosticato un tumore a mio marito, per tutta la vita ricorderò la voce del medico che in questi cinque giorni non ci ha lasciato soli di fronte al buio più nero.    Eppure … è quasi sempre dal dolore che nasce il senso della vita più autentico. Semplicemente vivere giorno dopo giorno senza rendere vuoto un attimo, apprezzando ogni risveglio e ogni augurio di “buona notte”.