Che ne sarà di questi luoghi?

 Salvatore Ganci

Ecco uno dei tanti paesini tra i confini della Liguria e dell’Emilia, non compare neppure sulle carte stradali regionali, fino agli anni ’70 isolato dal mondo, salvo percorrere sette chilometri di mulattiera fino a Santo Stefano d’Áveto. Fino a pochi mesi fa, non esisteva neppure l’indicazione stradale che, da Santo Stefano d’Áveto,  passato un valico sul Monte di Mezzo, immetteva nell’altro versante delle acque, in provincia di Piacenza.  Eppure, ai primi dell’800, quando l’Italia era (saggiamente?) spezzettata in tanti stati e staterelli questo paesino aveva ben 300 abitanti e un ospedale: era  importante perché al confine tra il Regno di Sardegna e il Ducato di Parma e pertanto luogo di dogana. La pietra indicativa del confine è oggi esposta sul sagrato della chiesa. E la “vecchia Dogana” ancora esiste sulla strada rimasta sterrata, fino ai primi anni del nuovo millennio, come lo era ai primi dell’800 quando la dogana la si passava in diligenza poco prima di un valico. Strada che inerpicandosi a fianco del monte “Groppo Rosso” giunge a Ferriere estremo comune montano in provincia di Piacenza, con più di quaranta frazioni disseminate, su un territorio montuoso ampio e ricco d’acqua. Anche se in Emilia, per un paio di chilometri dal confine con la Liguria, il dialetto di questo luogo è un “Genovese” ingentilito da una punta di Piacentino, mentre cinque chilometri sotto, verso il fiume, la parlata dei pochi vecchi rimasti  è già il tipico dialetto piacentino, cosa che darebbe un po’ d’imbarazzo alle iniziative scolastiche della Lega. Le cause di queste anomalie glottologiche sono ovviamente i maggiori interscambi tra Santo Stefano d’Áveto (da sempre appartenente al Genovesato) cui si arrivava a piedi, rispetto le altre frazioni di Ferriere, con cui c’era ben poco da scambiare … Oggi il paesino, non so più quanti abitanti conti: ogni tanto nel cimitero c’è un nuovo tumulo di terra fresca con una croce di legno: ricordo tre anni fa di averne contati ventisei di “residenti”;  in pratica meno di una dozzina di “fuochi”. Tutti pensionati agricoli, non un solo giovane, tranne un po’ di gioventù nei soli mesi di luglio e agosto quando a Piacenza fa caldo o quando molti oriundi tornano dalla Francia verso la quale  c’è stata una forte emigrazione. Fino agli anni 70 non c’era famiglia senza almeno una mucca e la chiesa era aperta la domenica mattina. Poi i provvedimenti atti a scoraggiare la produzione di latte, i ragazzi che per studiare dovevano andare fino in riviera e questo luogo dove regna un silenzio totale rotto solo dal continuo scorrere dell’acqua è diventato un deserto. Le campane della chiesa segnano solo le ore e il prete viene di sfuggita il sabato per una messa celebrata per tre o quattro vecchie (gli uomini non entrano in chiesa). Il tutto, ovviamente, neve permettendo, perché a dispetto dei soli 1100 metri di altitudine, qui fa sempre freddo e gli unici mesi in cui non s’è vista neve sono solo luglio e agosto. Un caso limite lo ricordo io stesso nel ’95, quando nevicò il primo maggio, ma un “vecchio” mi raccontò di una nevicata l’otto settembre e di una il 2 giugno. Eppure in questo paesino dove la vita e l’economia rurale (la normalità dell’Italia degli anni ’50, come ci insegnavano a scuola) deve essere stata tra le più ingrate, tanto da fare nominare “valle tribolata” il luogo stesso; dove le frane dovute al dissesto idrogeologico hanno spostato già due volte il paese verso l’alto; dove neppure il castagno riesce a crescere e solo il faggio arriva ad avere tronchi larghi come colonne,  i pochi rimasti non andrebbero mai via. L’uomo che viveva in passato (non poi tanto male, sembra dalle vecchie fotografie di feste capestri)  sta sparendo oggi. Una economia di semplice sopravvivenza basata sulla coltivazione delle  patate, con un occhio di guardia alle razzie dei cinghiali, ma un vecchio mi diceva anche sulla coltivazione del “grano marzolino” e della produzione del latte e dei suoi derivati. Un luogo come tanti  che stride con una Italia dove sembra esserci il solo terziario, dove tanti bei ditini danno pochi tocchi delicati alla tastiera di un computer  in un ufficio con l’aria condizionata,  dove non vedo officine artigiane entro un raggio di 3 km da casa (la grande industria è in crisi,  le industrie satelliti si ritrovano in una crisi peggiore e nessuno apre una bottega artigiana “seria” perché non ci sono incentivi “credibili”). Insomma una Italia non più agricola (ma neppure industriale)  dove non esiste di fatto un settore primario e secondario affidabile, dove tutti vogliamo essere come minimo dietro a un computer o felicemente precari in qualunque settore dello stato e del parastato. Se poi c’è di mezzo anche una laurea, allora si esige l’impiego congruo al titolo, altrimenti si prosegue per conseguire un Master. Intanto, nonostante due solleciti, aspettiamo l’idraulico da dieci mesi. Straordinario, nell’attesa, il nastro adesivo telato, mentre sto studiando in segreto con il “kit del piccolo Idraulico”… Ripenso spesso a questo paesino in montagna (così bello e silenzioso da volerci riposare quando sarà finita la mia giornata terrena) dove un buon manipolo di giovani in cooperativa, facendo riapparire le mucche sparite con gli ultimi vecchi, potrebbe tornare a sfruttare razionalmente quel territorio così aspro ma così vicino a un cielo così limpido che nelle notti  d’agosto, vedi tutta la Via Lattea. In fin dei conti mi avevano insegnato che sono i beni prodotti (anche una toma di latte vaccino) quelli che realmente incrementano il P.I.L.