Riceviamo e pubblichiamo:narrativa

DANZA SUL FIORDO

Prefazione di
Francesco D’Episcopo, ARACNE EDITRICE
Copyright © MMIV
Michele Ingenito
Cap. I
La morte convive con la povertà. Da sempre, da quando ha conosciuto la vita. Il dramma dell’esistenza pure. Morte in vita, vita in morte. Il canto del poeta riappare, attuale e costante. I secoli non sono il tempo allora. Quando la condizione dell’essere, dell’essere umano, nasce trafitto non dalla sorte, ma dall’altro. Sempre umano come essere, ma diverso nel suo essere.In quell’eterna condizione di forzata convivenza, la povertà genera la morte dell’animo ed ogni male–essere l’automatica conseguenza per un avere a tutti i costi. Con le buone o con le cattive, per un pane quotidiano o per una ricchezza estorta alla grande, grazie al malaffare.Anche per questo, i lavavetri e i vù cumprà sarebbero morti come avevano vissuto. Agli angoli o lungo le strade. Sparpagliati qua e là, a breve distanza gli uni dagli altri, tra i confini illimitati del mondo civile, lontani da quelli circoscritti, che individualmente li riguardavano e dai quali erano un giorno fuggiti. E sarebbero stati parimenti sepolti, a distanza non meno ravvicinata, nello stesso modo in cui era scorsa la loro vita. Ma mai gli uni addosso agli altri, come ebrei, mai invadendo “lo spazio dei vicini”. In morte come in vita. Non erano né sarebbero mai stati ricchi abbastanza per poterlo fare. In vita e, quindi, in morte.Il mondo aveva bisogno delle proprie distinzioni, seppur non a ragione. Non aveva, il mondo, abbastanza risorse per rinunciare, una volta per sempre, a quel male–essere che contrapponeva gli uni e gli altri, miliardi di anime che si incontravano, si vedevano, ma non si conoscevano. Non conveniva, non si doveva.Su tutto prevaleva, quindi, una condizione non voluta, ma fonte di martirio per una rassegnazione quotidiana accolta nella mite ricerca della sopravvivenza. Lo sapevano dentro di sé i lavavetri e i vù cumprà. Per questo, la condividevano e la accettavano.— Li mortacci tua! — Bestemmiò l’uomo inviperito. — Pure quànno piove! — E, al verde, a marcia ingranata, schiacciò il piede sull’acceleratore, schizzando via come una furia. Non senza rivolgere un’occhiataccia che sapeva di avvertimento al giovane lavavetri. Il quale, approfittando di una pausa dalla pioggia, aveva tentato di ripulire il parabrezza zozzo ed appannato della potente fuoriserie.La giornata era stata magra e, da quelle auto, si rimediava sempre qualcosa. Anche nei rari interventi scoraggiati dal particolare contesto climatico.Solo quando il malcapitato extracomunitario fu abbastanza vicino allo sportello di guida, si rese conto di avere osato. Troppo tardi, purtroppo. Si ritrasse, perciò, d’istinto, abbassando più volte il capo in segno di scusa. Che non gli impedì di essere investito da una consistente massa d’acqua, nel contestuale balzo in avanti della potente autovettura a causa dell’ampia pozzanghera adiacente il marciapiede. Non era proprio giornata per lo sventurato uomo di colore. Avvicinarsi a quell’uomo non era consentito, se non tramite assenso. E a distanza. Purtroppo, le luci insufficienti gli avevano impedito di riconoscerlo e il bisogno di raggranellare a tutti i costi qualcosa lo aveva indotto ad agire d’istinto.Il tempo riprese a peggiorare e il povero disgraziato raccattò le quattro cianfrusaglie per ritirarsi nel proprio tugurio. Dopo tutto, mancava meno di un quarto d’ora alla fine del “turno” e nessuno se ne sarebbe accorto.Era una di quelle serate romane da brividi. Sin dal primo pomeriggio un temporale mai visto si era abbattuto sulla capitale con scrosci d’acqua e di vento di inaudita violenza.Poi, per qualche ora, la situazione era migliorata. Niente pioggia nonostante i nuvoloni imperanti dappertutto. Intorno alle 19.00 Roma era tuttora immersa in mille “laghi” di acqua piovana, pozzanghere grandi e piccole, senza differenza alcuna tra centro e periferia. Allagamenti si erano verificati in numerosi quartieri e le richieste di soccorso divennero incessanti. Le piogge insistenti dei giorni precedenti avevano creato molti danni, specie nelle periferie, con crolli e smottamenti.Il centralino dei vigili del fuoco rimase intasato per ore, così come le orecchie dei romani dalle loro sirene.Mancava ancora poco alla chiusura dei negozi, ma molti già abbassavano le saracinesche alla chetichella per timore di non potere rientrare a casa.D’improvviso, la bufera riprese con insolita virulenza, protraendosi per alcune ore, tra le 20.00 e le 22.00. Poi iniziò lentamente a ridursi dopo quell’ora, nonostante la pioggia incessante.Le folate di vento, infatti, calarono d’intensità, rendendo possibile almeno l’utilizzo degli ombrelli. Per quanto imbottita di auto di cittadini caoticamente diretti verso le rispettive abitazioni, la città sembrò assumere la parvenza di una precaria normalità.Roma e i romani non erano abituati a quel trattamento atmosferico, se non in casi tanto rari quanto eccezionali. E, pertanto, si lasciavano puntualmente cogliere alla sprovvista.Mancavano pochi minuti alle venti, ma la concessionaria di auto tedesche sulla Prenestina era ancora aperta.Quel pomeriggio avevano fatto giusto in tempo a scaricare un Tir proveniente dalla Germania con alcuni nuovissimi modelli della linea 3 della BMW e due Porsche Carrera 911 di ultima generazione, di cui una in versione cabrio.Il titolare e il capofficina si stavano intrattenendo negli uffici per definire i particolari delle consegne da effettuarsi nei giorni successivi, ma anche in attesa che il tempo migliorasse.Era il 21 febbraio di un inverno 2003 tutto da dimenticare. Pensavano a questo i due uomini intenti a discutere, quando nel piazzale antistante piombò un’auto di grossa cilindrata.Il conducente l’arrestò con una frenata da brividi proprio al centro di un grande pantano. Si sentì perfino il sibilo delle gomme, così sembrò almeno, nonostante l’acqua alta.Titolare e dipendente si fiondarono istintivamente all’interno del salone, a ridosso della grande vetrata, preoccupati da quel gran frastuono.Per i pochi interminabili attimi che precedettero l’arresto dell’auto, il capofficina temette addirittura che quel bolide potesse fracassarsi contro l’enorme sagoma trasparente di vetro e di cristallo, finendo dritto sulle auto di lusso esposte.Le porte della concessionaria erano state chiuse da circa trenta minuti e nessuno avrebbe mai immaginato l’arrivo di un qualche cliente ritardatario in una serata come quella.I due individuarono a stento il profilo di un uomo sceso rapidamente, protetto da un impermeabile alla tenente Sheridan; ma non tanto da non inzupparsi come un pulcino.

Dall’esterno, la situazione era ancora peggiore. Non si vedeva nulla o quasi all’interno della concessionaria, tranne i riflessi sbiaditi della luce dell’ufficio che si rifrangevano nel salone attraverso la porta aperta.

Era tutto ciò di cui lo sconosciuto aveva bisogno. La certezza di una presenza. Sbatté la portiera della potente Saab scura e si diresse con passo veloce all’ingresso.In quello stesso istante saltò via la luce e l’uomo si ritrovò a diretto contatto con la porta trasparente della vetrata, battendovi i pugni contro per farsi aprire. Sapeva che dentro c’era qualcuno e non andò troppo per il sottile.Federico Lombardi s’avvicinò cautamente, mentre il capofficina seguiva a qualche metro di distanza con il cellulare acceso, pronto ad usarlo in caso di emergenza.Con una potente pila il titolare proiettò un fascio di luce sul volto bagnato dello sconosciuto, nella speranza di riconoscerlo.Lì per lì non se ne fece niente. Un po’ per la pioggia fittissima un po’ per il cappellaccio e il bavero rialzato che ne proteggevano il volto quasi interamente, non riuscì a identificarlo.L’interessato se ne accorse e ovviò immediatamente al problema. Rialzò di quel tanto il cappello per facilitare il proprio riconoscimento, abbassando contestualmente il bavero dell’impermeabile.La cosa riuscì con somma delusione per il concessionario. Non si sarebbe mai atteso una sorpresa così indesiderata. Ma non aveva scelta.Per quanto sgradita, non poteva ignorare quella presenza. Ordinò, quindi, al dipendente di aprire senza indugio la porta della vetrata, evitando di tradirsi.Appena dentro, lo sconosciuto abbracciò Lombardi, incurante dei residui di acqua piovana spruzzati involontariamente in faccia all’amico, sommergendolo di pacche sulla spalla e dietro la schiena.

— Come stai vecchio mio? — Esclamò sorridente. — Non ci voleva proprio questo maledettissimo tempo. Ma tant’è! È sempre bello ritrovare un amico come te, pioggia o non pioggia che sia! —

Il concessionario espresse un sorriso di circostanza, fingendo a sua volta di essere rimasto piacevolmente sorpreso.

— Sto bene, sto bene. Che piacere rivederti dopo tanto tempo. Come mai da queste parti? — Aggiunse, cercando di andare subito al sodo.

— E questo chi è? — Gli chiese l’uomo volgendo il capo in direzione del dipendente.

— È Luciano, Luciano De Fiore, il mio capofficina. —

— Bene, bene, è una presenza gradita allora. — Replicò lasciandolo di sasso.

— Cosa posso fare per te? — Insisté il concessionario.

Il sorriso sul volto dello sconosciuto scomparve all’istante. Si fece serio e, prendendo l’amico sotto braccio, si avviò verso il suo ufficio. Evidentemente, conosceva bene gli ambienti.

— Ascolta, devo parlarti da solo. — Disse, facendo chiaramente intendere di non gradire la presenza di estranei.

— Luciano, và pure in officina. Ti raggiungerò tra poco. — Esclamò il padrone.

Il dipendente capì e si allontanò discretamente.

**

Una volta in ufficio, l’uomo si tolse cappello e impermeabile, distendendosi tranquillamente sul confortevole divano in pelle.Si accese una sigaretta offrendone un’altra all’amico. Federico l’osservò bene in viso. Com’era cambiato Geppy in quegli ultimi anni in cui si erano persi di vista.

Si chiamava, in realtà, Giuseppe Mendolara, ma ai tempi della scuola superiore frequentata insieme tutti lo chiamavano affettuosamente Geppy. Da allora quel vezzeggiativo gli rimase appiccicato, almeno per il vecchio compagno di banco.Non era mai stato un ragazzo brillante, neppure coriaceo, né per intelligenza né per volontà. Prepotente si, invece, sempre, soprattutto quando aveva torto.Geppy non ammetteva di essere contraddetto e, da bravo bullo di periferia, ricorreva alle mani e ai colpi bassi, pur di far prevalere i propri interessi.Intorno ai sedici anni iniziarono i primi guai per lui, guai giudiziari che a nulla valsero per frenarne gli impeti e ridimensionarne i comportamenti.Finì ben presto in istituti di pena per minorenni dopo avere fatto uso di armi da taglio in piccole rapine di quartiere, prima del grande salto nella criminalità organizzata.L’unica cosa buona che combinò in quegli anni di perdizione tra un carcere e l’altro fu di iscriversi alla facoltà di ingegneria della capitale.Ma la cosa durò ben poco. Non per cattiva volontà o rinuncia. Solo per manifesti limiti intellettivi. Per quanto consapevole, la cosa costituì per lui una grande sofferenza per tutta la vita.Nei tre anni di scuola superiore frequentati insieme, Federico fu l’unica persona alla quale Geppy era riuscito ad affezionarsi. Un po’ per simpatia istintiva, un po’ perché il primo condivideva sempre con l’amico la colazione che la madre gli preparava tutte le mattine, ancora più abbondante dopo avere saputo dell’amicizia tra i due.

Passato quel tempo, però, i due si erano persi definitivamente di vista. Dai giornali il concessionari, apprese negli anni del salto di qualità del vecchio compagno di scuola nel mondo della criminalità organizzata. Poi, non ne seppe più nulla.Trascorsero almeno quindici anni prima che un giorno, sul più importante quotidiano della capitale, si venisse a sapere nuovamente di Geppy. Era ormai diventato un boss tra i boss della delinquenza romana, temuto e rispettato da tutti.Nel processo subito per una serie di omicidi contestatigli nell’ambito di vendette trasversali tra bande, l’amico uscì sempre assolto da tutte le accuse, nonostante la certezza della sua colpevolezza.Aveva evidentemente raggiunto la maturità massima del criminale in grado di uccidere o far uccidere senza lasciare tracce e, per questo, senza potere essere incolpato e condannato.‘Un bel passo avanti!’ — Pensò Federico, quasi orgoglioso e fiero in quel sinistro sentimento per l’amico di un tempo.

***

Non si accorse di essere osservato da Geppy già da qualche minuto.

— Mi hai chiesto di cosa ho bisogno. Bene, te lo dico subito. Mi serve una macchina nuova di zecca, “pulita”, sai cosa intendo dire, vero? — Ammiccò con tono sornione. — Che, però, — aggiunse — non posso pagarti. Almeno per ora. —

Federico sbiancò quasi per quella richiesta. Non voleva mettersi negli impicci. Ma sapeva che un rifiuto a quell’uomo avrebbe potuto costargli caro.

Geppy era un boss troppo importante per subire un rifiuto. Soprattutto da un vecchio amico come lui. Uno qualsiasi, piccolo o grande che fosse, equivaleva ad uno sgarro. E lo sgarro alla vendetta. Che, nell’ambiente della mala, corrispondeva automaticamente alla distruzione dell’autosalone, salvo “sorprese” peggiori.

Cercò di guadagnare qualche secondo pensando ad una risposta adeguata. Non ci riuscì. Ci provò lo stesso.

— Ti serve proprio subito? —

— Non te l’avrei chiesto altrimenti. Sono in difficoltà. C’è gente sulle mie tracce. Se mi prendono finisco dritto in tre metri per due con il cielo a quadratini di giorno e a stelle e strisce di sera! —

— A stelle e strisce? — Commentò stupito.

— A Federì! Metti nà bella serata romana cò tante stelle fòra, pure a “Regina Coeli” te vène à voglia e’ campà, nùn te pàre? —

Il concessionario non riuscì a nascondere intimamente la propria sorpresa e ammirazione per la sottile e, al tempo stesso, gelida e realistica auto ironia del vecchio compagno di scuola.

Poi, improvvisamente, si oscurò in viso pensoso.

‘Gente, tracce, tre metri per due, cielo a quadratini o a stelle e strisce… La polizia deve essere effettivamente alle sue calcagna.’ — Concluse Federico. — ‘Non ho speranze. Devo fare come dice lui.’ Si disse oscurandosi in viso.

L’amico capì.

— Stai tranquillo, non ti accadrà nulla. Dammi solo l’auto. Al resto ci penso io. — Replicò Geppy sorridente, intuendo il suo disagio e la sua preoccupazione.

— Ma come faccio a trattenere la tua auto? Se viene la polizia mi becca in flagrante. —

— Non è un tuo problema. Dammi solo l’auto nuova. Capirai quando me ne andrò. Cos’hai a portata di mano? —

A malincuore Federico confessò.

— Mi hanno scaricato proprio oggi sei BMW 320 benzina e due Porsche. —

— Di che colore sono le Porsche? —

— Una gialla in versione cabrio e l’altra grigio metallizzata. —

— Va bene quest’ultima. Mi serve subito. —

— Non è stata ancora allestita, però. —

— Non importa. Quanto tempo ci vuole? —

— Diciamo un paio di giorni. —

— Diciamo tre ore! —

Federico trasalì.

— Tre ore? Ma è impossibile! —

— Nulla è impossibile quando serve! Vuol dire che lavoreremo fino a notte inoltrata con il tuo capofficina. Che tipo è? —

— Per questo è molto fidato. Parla poco e mantiene i segreti. E, poi, non ce ne sono come lui qui a Roma di tecnici così bravi. —

— Bene, soprattutto per lui. Andiamo a parlargli e mettiamoci a lavoro. —

Ci volle poco per convincere il meccanico. Chiusa la concessionaria e annullati gli impegni della serata, l’auto fu pronta nel giro di sei ore. Non male, nonostante la richiesta di Mendolara.

****

Non fu difficile procurarsi in sede targa e documenti falsi. Quell’auto non avrebbe circolato per più di uno, due giorni al massimo. Il tempo necessario per consentire al boss di scomparire quanto prima e il più veloce possibile dalla circolazione. Poi della Porsche sarebbero scomparse le tracce per sempre.La denuncia per furto di quell’auto della concessionaria in prova sarebbe avvenuta esattamente tre giorni dopo. Fu questo l’impegno assunto da Giuseppe Mendolara nei confronti del vecchio amico. E, insieme, la gratitudine manifestatagli prima di fuggire.

— Segnati questo numero. — Gli disse, infatti, a motore acceso. — Non chiamarmi per sciocchezze. Ma se mai nella vita avessi bisogno di me, non esitare a cercarmi. Per qualsiasi cosa per cui valga la pena scomodarmi! Domani o tra dieci anni non cambia nulla. Non lo dimenticare. —

Federico notò il suo volto contratto e l’espressione seria. Si augurò di non avere mai bisogno di lui, anche se rimase intimamente compiaciuto della gratitudine del vecchio amico.

Si limitò, perciò, solo a ripetere:

— E della Saab cosa ne faccio? —

— Mentre esco dall’officina vai nel salone e osserva. —

Il boss ingranò la prima dando gas. Il rombo della possente autovettura risuonò come un tuono all’interno dell’ampio locale. Il capofficina teneva aperta la grande porta in acciaio d’ingresso con l’apposito pulsante.Quando Federico la vide spuntare sul piazzale tremò dalla paura al solo pensiero che potesse essere intercettata dalla polizia da un momento all’altro.Erano circa le due del mattino. Pioveva a dirotto e, nel silenzio complice della notte, gli unici segni di vita erano i fari illuminati delle rare automobili che transitavano veloci lungo le strade deserte di periferia.Geppy lampeggiò in direzione della Saab. D’improvviso si accesero i fari e la seconda auto cominciò a muoversi. In tutto quel tempo, non visto, il complice del boss era rimasto in paziente attesa al suo interno, pronto a qualsiasi evenienza.Federico rimase sbalordito per tanta muta fedeltà, mentre De Fiore attivò l’apertura del secondo e ultimo cancello. Una volta sorpassatolo, le due automobili scomparvero rapidamente alla vista.La denuncia per furto della Porsche fu presentata esattamente tre giorni dopo. Durante le prove su strada, “l’ignaro” responsabile tecnico della concessionaria era stato costretto ad una sosta sulla tangenziale per un’improvvisa colica renale di cui soffriva da tempo.Dieci, quindici minuti dopo al massimo, tornando verso l’auto, s’accorse che era scomparsa. La compagnia assicuratrice prese atto della denuncia senza alcun sospetto ed avviò la relativa pratica di rimborso come da procedura.Ad una settimana esatta da quella serata turbolenta, i giornali dettero notizia del ritrovamento di una Porsche carbonizzata e abbandonata nei pressi del confine italiano con la Svizzera.