Libro di don Stanzione su Santa Caterina da Genova

Cosimo Cicalese

 L’editore SEGNO di Udine ha inviato in questi giorni  in tutte le librerie cattoliche italiane il bel libro di don Marcello Stanzione intitolato “ Santa Caterina da Genova e le anime del Purgatorio”. All’ospedale “Pammatone”, a Genova, negli ultimi decenni del secolo XV, tra il personale d’assistenza agli infermi c’era anche una nobildonna: Caterina. Della famiglia Fieschi. Una delle più importanti della città. Radicata nelle terre del genovese, coi suoi feudi che si estendevano nella marca Obertenga. Protagonista della vita politica nella repubblica di Genova. In contesa, loro guelfi e filo francesi, con i ghibellini. Due papi nella  casata. Il grande Innocenzo IV, che al concilio di Lione del 1245 denunziò le cinque piaghe che affliggevano la Chiesa. Indisse una crociata, la settima, per  risottrarre Gerusalemme ai musulmani. Scomunicò l’imperatore Federico II, invadente e intrigante. Inviò in Mongolia al Gran Khan un suo messaggero con una lettera. Suo nipote Ottobono fu a sua volta papa, col nome di Adriano V, nel 1276. Malatissimo, visse poco più di un mese. Cardinali a iosa. Ben settantadue, l’equivalente o quasi di un intero conclave. Trecentotrentaquattro altri prelati, di cui più vescovi. E molti capitani e diplomatici. Diplomatico, per un breve periodo viceré di Napoli , era Giacomo, il padre di Caterina. Nata nel 1447, ultima di cinque figli, dalla madre, Francesca De Negro, ricevette una solida educazione cristiana. All’età di quattro anni pregava e meditava inginocchiata dinanzi a un quadro della Pietà e faceva penitenze. A dodici, ebbe la visione di Gesù, che la rese partecipe di un  po’ delle sofferenze della sua Passione. L’anno seguente, cercò di entrare nel convento di Nostra Signore delle Grazie, dove sua sorella maggiore Limbania era suora. Ma non fu accettata. Troppo bambina per la vita claustrale. Questo rifiuto l’addolorò molto. Un destino diverso stava maturando in lei. I familiari pensavano di darla in sposa a un membro degli Adorno, altra famiglia illustre della città. I rapporti, tra loro, non erano del tutti buoni, divisi com’erano in politica. Ma era questo anche uno dei motivi per volere quel matrimonio. In particolare i fratelli ci tenevano molto. Con quell’unione la potenza e la ricchezza della famiglia si sarebbe accresciuta. Giuliano, il candidato sposo, era tornato da poco dal Medio Oriente, dove aveva avuto varie esperienze commerciali e militari. Non godeva di buona fama. Dedito al gioco, alle donne, ai divertimenti. Un matrimonio combinato tra le due famiglie. Molto a malincuore, Caterina dovette accettarlo, premuta anche dalla madre. Si sposarono nel 1463. Lei aveva sedici anni. Giuliano venti di più. Con il matrimonio non cambiò affatto vita. Sperperava nel gioco i suoi averi. Il suo carattere, grossolano, superficiale, faceva soffrire molto Caterina. Dieci anni tormentosi. Durante i quali deviò dalla sua vita integerrima, cedendo alle fatuità mondane. Che non placavano, però, la sua infelicità. La vacuità di quella esistenza si faceva sempre più sentire. Finché un giorno decise di andare ad aprire il suo animo a un confessore. Era il 20 marzo del 1473. Qui mi preme continuare seguendo il tracciato che di santa Caterina da Genova ha fatto il Papa Benedetto XVI, oggi pontefice emerito nella sua catechesi di mercoledì 12 gennaio 2011. Diceva allora il papa emerito sul filone delle mistiche dal medioevo in giù, che con la loro vita di santità, le opere, gli scritti ispirati, i carismi ricevuti in dono, hanno reso testimonianza a Cristo e alla Chiesa. Un contrapposto metodico di Benedetto XVI alle pertinaci campagne dell’ateismo, suffragate dalla faciloneria relativistica che svilisce il sentimento religioso, e alla ormai chiara tendenza da parte di politici internazionali di voler seppellire le radici giudaico – cristiane dell’Europa. “Recatasi (Caterina) – è il papa che parla – nella chiesa di san Benedetto e nel monastero delle Grazie per confessarsi, e inginocchiatasi davanti al sacerdote, “ricevette – come ella stessa scrive – una ferita al cuore, d’un immenso amor di Dio”, con una visione così chiara delle sue miserie e dei suoi difetti e, allo stesso tempo, della bontà di Dio, che quasi svenne. Fu toccata nel cuore, da questa conoscenza di se stessa, della vita vuota che conduceva e della bontà di Dio…”. Fu tanto forte e improvvisa questa rivelazione che, interrotta la confessione, fuggì a casa. Dove, nella stanza più appartata, pianse a lungo. Le apparve allora “Gesù sofferente, carico della croce”. Alla sua vista, costernata, Caterina si mise a gridare: “Amore! Non più, non più peccati”. Qualche giorno dopo tornò in chiesa e contemplò la confessione. Iniziò da quel momento una vita di  “purificazione”, con sacrifici e penitenze. Così strenua e rigorosa, da avvicinarsi sempre più a Dio fino “ad entrare in quella che viene chiamata “vita unitiva”, un rapporto, cioè, di profonda unione con Dio… si abbandonò in modo così totale nelle mani del Signore da vivere, per circe venticinque anni – come ella scrive – “senza mezzo di alcuna creatura, dal solo Dio instrutta et governata” (istruita e diretta), nutrita soprattutto dalla preghiera costante, e dalla Santa Comunione ricevuta ogni giorno, cosa non comune al suo tempo”. “Il luogo della sua ascesa alle vette mistiche fu l’ospedale di Pammatone”. al Pammotone di Genova. Sorto nel 1422, ad opera del notaio Bartolomeo Bosco che, acquistati nel vico Pammatone tre vecchi stabili, ne fece un ospedale femminile, affidandolo alla Congregazione della “Beata vergine della Misericordia”. Caterina, convertita, spinta dal forte desiderio di purificarsi dal suo decennio di vita di peccato, si era associata alle Donne della Misericordia. Assieme a loro soccorreva i poveri, i malati, i bisognosi della città, provvedendovi con le proprie sostanze. Quando non poté più elargirle in proprio, si dedicò all’assistenza degli infermi nell’ospedale. Si era fatta terziaria francescana. E qui è il caso di annotare come l’Ordine di san Francesco, fin dal 1209 si dedicasse all’assistenza dei malati. Più che mai, poi, con la Riforma dei cappuccini. Il marito Giuliano, scosso da quel cambiamento imprevisto di vita della moglie, smise le sue abitudini goderecce e licenziose, nelle quali aveva sperperato gran parte  del suo personale patrimonio. Entrò anche lui nel Terz’Ordine Francescano, e prese ad aiutare la moglie in ospedale. Dal sontuoso palazzo avito, si trasferirono in una modesta abitazione, ben lontana dagli agi di prima, nell’ambito dello stesso complesso ospedaliero. Del quale Caterina divenne direttrice. Una cosa del tutto insolita per una donna in quel tempo. Quando, nel 1493, Genova fu colpita dalla peste, si ammalò anche lei, ma guarì. Con la discesa in Italia di Carlo VIII, nel 1494, si erano diffuse forme infettive, importate dai soldati del suo esercito. Al Pammatone le curavano, accogliendo i malati con carità cristiana. “Quindi – annota il Papa – Caterina vive una vita totalmente attiva”. Contemporaneamente alla “profondità della sua vita interiore… Si venne formando intorno a lei un gruppo di seguaci, discepoli e collaboratori, affascinati dalla sua vita di fede e dalla sua carità”. Tra loro spicca Ettore Vernazza. Che, oltre a seguirla nella spiritualità, la imitò pure nella carità. Tanto da mettere su, a sua volta, un ricovero per malati gravi e incurabili, chiamato il “Ridotto”. Esplicati i compiti quotidiani di direzione e organizzazione dell’ospedale, e di assistenza agli infermi, Caterina si dedicava alla trascrizione di quanto aveva nell’anima, nella mente  e nel cuore, dei suoi rapporti con Dio. Un testo diviso in tre parti. Tra cui il “Purgatorio”. Sul quale il Papa ha imperniato la sua catechesi. La purificazione, in vita, dell’anima si estende nell’aldilà in quello che viene chiamato il Purgatorio. Che non è un luogo definito. Ma “un fuoco non esteriore ma interiore” che l’anima soffre per non essere ancora nella “comunione contemplata con Dio”, finché non è completamente purificata dalle sue manchevolezze. Questa concezione non viene a Caterina da “rivelazioni specifiche sul Purgatorio e sulle anime che vi si stanno purificando”. Ma “dalla propria esperienza di profondo dolore per i peccati commessi, in confronto all’infinita bontà di Dio”. Nel momento della conversione “sente improvvisamente la bontà di Dio, la distanza infinita della propria vita da questa bontà e un fuoco bruciante all’interno di se stessa. E questo è il fuoco che purifica, è il fuoco interiore del Purgatorio”. “Scrivendo sul Purgatorio – citiamo ancora il Papa – la Santa ci ricorda una verità fondamentale della fede che diventa per noi invito a pregare per i defunti affinché possano giungere alla visione beata di Dio nella comunione dei santi”. Come sancito nel Catechismo della Chiesa Cattolica, 1082. Caterina sentiva la purgazione delle anime come “fuoco d’amore”, non per rivelazione mistica. Ma per quello che aveva sperimentato al momento della conversione, prendendo coscienza dei propri peccati. P. Pio vede le anime purganti e parla con loro nei luoghi concreti dove hanno vissuto. Ma ha anche la rivelazione di quando, scontata la pena, godono il paradiso. E il Papa Benedetto, per comprendere il purgatorio, rimandava ai Santi. Che “nella loro esperienza di unione con Dio, raggiungono un “sapere” così profondo dei misteri divini, nel quale amore e conoscenza si compenetrano, da essere di aiuto agli stessi teologi nel loro impegno di studio, di “intelligenti fidei”, di “intelligenza dei misteri della fede, di approfondimento reale dei misteri”. Sono i Santi, i mistici, che testimoniano Dio, i suoi misteri. Ed è ai Santi che, anche senza conoscerne, immaginare, la potenzialità di conoscenza del divino, si rivolgono, si affidano, i cristiani. Dai più semplici, ai più colti. Che, per quanto studino, indaghino, elaborino, non possono dire di aver risolto i misteri. Sono i santi che vedono, sentono, percepiscono Dio, e tutto ciò che è nel suo ambito della fede. Tutte le catechesi del Papa ruotano intorno a questo perno – verità. Quando lo studio degli uomini, la razionalità anche più eccelsa, non può giungere alle spiegazioni di Dio. Come non può giungere alla sua negazione. Si adombra anche qui il dualismo fede – ragione. La fede non è cieca, assurda, miope. E’ all’apice della ragione. Arriva dove la ragione si arena. E i santi, dico molto grossolanamente, sono gli intermediari, i demiurghi, di questa conciliabilità. E’ l’amore, e massimamente in forma superlativa l’amore dei mistici “il filo d’oro che collega il cuore umano con Dio stesso”. E’ una immagine di Dionigi l’Aeropagita, ripresa da Caterina. “Quando Dio ha purificato l’uomo, egli lo lega con un sottilissimo filo d’oro, che è il suo amore, e lo attira a sé con un affetto così forte che l’uomo rimane “come superato e vinto e tutto fuor di sé”. Ma è l’amore verso Dio che consente, spinge a riversarsi sugli uomini nella carità”. Un “luminoso esempio” ci è dato dal “servizio umile, fedele e generoso, che la Santa prestò per tutta la sua vita nell’ospedale di Pammatone”. Ed è “un incoraggiamento specialmente per le donne che danno un contributo fondamentale alla società e alla Chiesa con la loro preziosa opera, arricchita dalla loro sensibilità e dall’attenzione verso i più poveri, i più bisognosi”. Questo leitmotiv di Benedetto XVI sulle donne, che si è snodato, si snoda da due stagioni nelle sue catechesi, è un implicito, anche se non espresso, richiamo alla donna, a tutte le donne, perché onorino la loro dignità di creature capaci di amare nel modo più puro e sublime, nella loro femminilità e bellezza, che sono doni di Dio. Caterina Fieschi morì nel 1510. Fu canonizzata nel 1737 dal Papa Clemente XII. Pio XII, nel 1943, la proclamò patrona , secondaria, degli ospedali italiani. Il libro di don Marcello Stanzione vuole contribuire a riprendere in modo particolare la devozione cattolica alle anime del Purgatorio di cui santa Caterina da Genova era particolarmente dedita.