Il declino (della) Nazionale

Angelo Cennamo

L’uscita prematura della Nazionale dal mondiale brasiliano accende la fantasia di chi nel calcio è solito proiettarci luci ed ombre del Belpaese, adoperandosi in metafore che non sempre, però, si attagliano al gioco del calcio e ai patemi che lo circondano. E così la debacle degli uomini di Prandelli diventa spunto di riflessione su ben altre sofferenze e disagi, reali e meno ludici, di un’Italia che oramai da diversi anni stenta a ritrovare la luce in fondo al tunnel della crisi, nonostante l’austerità e i compiti a casa che Germania e compagnia bella ci impongono dai palazzi di Bruxelles. E’ il caso per esempio di Vittorio Feltri, che, dalle colonne de Il Giornale, traduce il fallimento degli azzurri nella radiografia di un Paese in declino e senza idee. Se e quanto lo sport sia condizionabile dalla politica o dall’economia non saprei dirlo. E’ possibile, ad ogni modo, che certi fenomeni o tendenze si riverberino più o meno direttamente anche sui risultati del nostro calcio, impoverendolo o svuotandolo dei  contenuti più veraci e identitari. I giornali in questi giorni dedicano interi paginoni alle dichiarazioni che hanno accompagnato le dimissioni di Prandelli ( eccessive; per certi versi, fuori luogo) e allo sfogo altrettanto “paranoico” di Balotelli, il quale non perde occasione per trasformare una critica sul rendimento in una piagnucolosa vicenda razziale. Non sono un fan di Balotelli, ma addossare tutte le colpe della disfatta italiana al ragazzotto bresciano – autore se non altro di una discreta prestazione contro l’Inghilterra – mi sembra, francamente, ingeneroso e fuorviante. La verità è che nessuno di noi nelle settimane che hanno preceduto il mondiale si era mai illuso che la Nazionale di Paletta, Barzagli e Thiago Motta potesse ben figurare in Brasile, visti anche i risultati delle ultime partite amichevoli. Sapevamo che il nostro girone era complicato e che anche l’eventuale superamento del primo turno non ci avrebbe portati lontano. E allora smettiamola di fare gli ipocriti e interroghiamoci piuttosto sulle possibili cause di certe figuracce. Si è detto e scritto che i nostri calciatori sono andati al mondiale con figli, mogli e suocere al seguito. E che tutti insieme hanno alloggiato nel resort più costoso del Sud America (probabilmente). E’ stata un buona idea? E’ utile alla concentrazione trasformare l’appuntamento più importante di una carriera in una sorta di villeggiatura o luna di miele? Secondo. E’ opportuno che le nostre squadre di club siano composte per due terzi, talvolta per 11 undicesimi, di stranieri? Vale la pena investire milioni di euro su un brocco argentino piuttosto che spendere quattro soldi su un talento di Siracusa o di Rovigo? Quanti europei giocano nei campionati dell’Uruguay, Costa Rica e Brasile? Come si vede, la cattiva globalizzazione in qualche modo c’entra anche col mondo del calcio. Impariamo allora a difendere di più e meglio il made in Italy, ci servirà forse anche a vincere e convincere nello sport.