Appunti di pratica filosofica (III)

Fulvio Sguerso

“Attualmente le imprese si stanno orientando rapidamente verso modelli organizzativi di tipo reticolare, caratterizzati da nuove modalità di pensiero, sempre più collettive e “gruppali”, che richiedono buone capacità di ascolto, di dialogo e di pensiero critico. In questo la filosofia può essere un ottimo strumento di lavoro, motivo per il quale molte aziende anglosassoni e nordeuropee si sono già avvalse dell’utilizzo delle Pratiche filosofiche. Esse infatti aiutano gli individui a cambiare il proprio modo di comportarsi e di relazionarsi con i colleghi e, più in generale, con tutti gli stakeholder interni ed esterni. Attraverso gli strumenti che la filosofia mette a disposizione, tra cui l’argomentazione, la logica, il pensiero critico; e particolari regole metodologiche, quali la sospensione del giudizio, il riferimento all’esperienza, il pensiero inclusivo, messa in gioco di sé, ecc, ecc., è possibile attivare un’occasione di riflessione  e di dibattito condivisa e controllata, indispensabile per raggiungere gli obiettivi prefissati. “ (Dal sito: www.pratichefilosofiche.com). La “filosofia pratica” è già messa in pratica nell’attività e nel comportamento di ciascuno, sia sul e nel lavoro sia nel “tempo libero”. Il discorso verte sul grado di consapevolezza di ciascuno su quale filosofia viene messa in pratica. L’ideale, a me pare, sarebbe riconoscere la propria filosofia in quello che si fa, e quello che si fa nella propria filosofia, in una specie di circolo ermeneutico teorico-pratico , esistenziale e personale, non nel senso di un pragmatismo utilitaristico e miope, ma nel senso di amare o, almeno, interpretare al meglio la nostra parte e, in tal modo, realizzare le nostre possibilità. Ora, dato per acquisito che così il nostro pensare come il nostro agire (ma il pensare è già un agire) avviene sempre in un contesto storico, sociale, culturale ed economico ben preciso, si tratta di riconoscere i condizionamenti e i limiti della nostra autonomia di pensiero e d’azione; in altri termini, fino a che punto le nostre scelte sono effettivamente libere oppure pre-determinate da fattori o da agenti esterni. Prendiamo, ad esempio, l’uso del tempo, o meglio, del “nostro” tempo. Già la distinzione tra un tempo “per noi” e uno “per gli altri”, di un tempo regolato dall’orario di lavoro e un tempo “libero”, di un tempo impiegato per produrre merci e danaro, e un tempo invece  senza uno scopo definito, dedicato all’ozio e quindi considerato inutile, se non dannoso (l’ozio come padre dei vizi), ci fa subito comprendere che  l’esistenza di un tempo oggettivo e uguale per tutti è una pura illusione, una delle tante credenze che accettiamo per una sorta  di patto non dichiarato o di convenzione non scritta, perché “così fan tutti”, o quasi, altrimenti sarebbe il caos. Quello che è oggettivo non è il tempo in sé ma il sistema di misura adottato, e non è detto che il nostro orologio interno sie regolato su quelli esterni, anzi, tutti facciamo continuamente esperienza della variabilità della durata, poniamo, di un’ora, a seconda della situazione in cui ci troviamo. La percezione che abbiamo della velocità o della lentezza dello scorrere del tempo è dunque soggettiva e relativa alle circostanze e non coincide mai con quella di chi ci sta accanto; inoltre il nostro tempo è da tempo caratterizzato dalla frenesia del produrre: “Produrre per consumare, consumare per produrre. Di qui molto spesso un consumo senza gioia, costretto com’è nei ritmi obbligati della produzione.” (Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli); e questa frenesia tutto può essere meno che salutare, così per il corpo che per l’anima. In tale contesto, qual è la funzione della cosiddetta filo-sofia aziendale? Il buon funzionamento e il successo dell’azienda medesima, che cosa se no? Ora un impiegato o un operaio può certamente introiettare la “filo-sofia” della ditta per cui lavora; ma dal momento che il fine è la produzione e il profitto, si tratta di un fine utile e persino necessario al mantenimento e al miglioramento del posto e delle condizioni di lavoro, ma che non può certo definirsi “universale”: un’ azienda non ha come ragione sociale il bene ma la produzione di beni, cioè di merci da mettere o da piazzare sul mercato, dove, se vuole sopravvivere, deve battere la concorrenza di altre aziende che, a loro volta vogliono sopravvivere piazzando i loro prodotti, e così via. Questo non toglie che convenga lavorare in un ambiente sereno e accogliente piuttosto che in un ambiente stressante e conflittuale, a rischio di mobbing, ecc. E, in ogni caso, migliorare la capacità di ascolto e di comprensione delle motivazioni e delle esigenze altrui non può far altro che bene; purché non si confondano i mezzi con i fini, i particolari con l’insieme e il relativo con l’assoluto: si lavora per vivere, non si vive per lavorare.

3 pensieri su “Appunti di pratica filosofica (III)

  1. “Si lavora per vivere, non si vive per lavorare”.Se venisse applicato questo principio significherebbe mettere l’Uomo al centro delle azioni umane e allora tutta la visione del mondo sarebbe, finalmente, capovolta!L’alba dell’umanità! Un’utopia? Un sogno? Un obiettivo, forse lontano, ma per cui vale la pena battersi e vivere!

  2. A proposito di aziende che coniugano la produzione con la solidarietà, posso portare come esperienza quella che si è concretizzata nella mio paese e che si è poi rivelata essere un’esempio ed una realtà di riferimento per tutto il territorio.Ne parlo perchè ne sono stata in un certo senso direttamente coinvolta.Parlo di una cooperativa di produzione lavoro “LA RADICE” operante sul territorio dal 1992, tuttora operante che si impegna a fare inserimento di persone con disabilità di tipo psichiatrico con lo scopo di inserirle,dopo un periodo di 4,5 anni, a seconda del percorso,e dopo un’aquisita autonomia lavorativa, in aziende cosiddette normali.Quello che ha sempre caratterizzato questo ambiente lavorativo in particolare nei suoi primi 14 anni di vita, era l’accoglienza,il rispetto per la diversità, la comprensione, il dialogo continuo, l’attenta osservazione e guida sul lavoro,nonchè l’alta professionalità e il grande impegno morale di chi la dirigeva. Chiunque entrasse in quella azienda era colpito dall’atmosfera che vi regnava,dalla grande armonia ,dalla relazione tra le persone e dall’ordine dell’ambiente,che significava innanzitutto rispetto per le persone che vi lavoravano.. pur essendo una falegnameria.Con ciò non è che non vi fossero conflitti,o problemi,ce ne erano a iosa
    ma la professionlità era nel saperli gestire e appianarli.Vanto di chi vi lavorava era dire “NOI SIAMO UN’AZIENDA PIU'” perchè non solo è un’azienda sul mercato come le altre ma in più riesce a dimostrare di crescere pur inserendo persone con una bassa produttività ( almeno inizialmente)e soprattutto con problemi anche gravi.L’orgoglio della cooperativa è stato quello di aver fatto inserimento all’esterno in aziende normali e tutti riusciti,tranne uno, perchè è stato il giovane interessato a lasciare e a tornare indietro (anche se più lontano da casa)in quanto dove era approdato non gli consentivano mansioni più adeguate alle sue capacità,facendolo sentire comunque un diverso. In cooperativa sa usare macchinari anche complicati ed è ritenuto uno dei migliori operai. Altro vanto di questa cooperativa, definita da più parti come “l’Università delle cooperative”,è quello di aver voluto,insistentemente chiesto e creato tutta una rete di collaborazioni nel territotrio:Cooperativa, USSLL, psichiatri, psicologi e famiglia che prima non esisteva, creando una rete sinergica di apporti utili alla buona riuscita del recupero sociale e lavorativo delle persone inserite, persone sempre rifiutate nelle altre aziende perchè “non-produttive” e accolte o raccolte “col cucchiaino ” dalla cooperativa “La Radice”.”Noi… i problemi li risolviamo alla radice” slogan simpatico che sottolineava l’impegno di andare all’origine del problema, e quale se non quello di partire dall’essere umano innanzitutto?
    Ho parlato a volte al passato perchè attualmente,pur essendo ancora
    operante, la cooperativa ha cambiato gestione (per forza maggiore), e purtroppo ha anche cambiato volto:
    l’atmofera non è più la stessa, come è stata da più parti affermata
    soprattutto da parte dei ragazzi inseriti,perchè,pur portando ancora avanti il progetto della cooperativa sociale, tuttavia anche lì ora domina l’ansia da “mercato”, ponendo in parte la parola fine al periodo d’oro di quella piccola grande esperienza di “lavoro altro” con al centro della sua attività la PERSONA,con problemi, provenienza e religioni diverse!
    (Dedicato a mio marito che per questa sua cretura si è impegnato a
    vivere anni di grandi sacrifici e di rinunce, alleviati però dalla consapevolezza del giusto fine e dalla testardaggine frutto di un grande impeto idealistico, teso a dimostrare che si può lavorare meglio e vivere bene nel proprio ambiente di lavoro se solo provassimo a cambiare “il punto di vista”.
    Lui ci è riuscito a realizzare questo sogno per 14 anni, perchè non provarci ancora e non provarci tutti?) Grazie per l’attenzione!

  3. Certo è che se tutti fossimo contenti (dal latino “continere”, cioè contenere entro determinati limiti) e soddisfatti del nostro lavoro, saremmo tutti anche più sereni, gioiosi e aperti verso il nostro prossimo. Purtroppo sappiamo che molti non si riconoscono in quello che fanno, e che si adattano per necessità a un lavoro che non hanno scelto, e ancora grazie che ci sia! Sappiamo anche che non proprio tutti (o tutte) si adattano ai lunghi apprendistati o alle “gavette” indispensabili per l’esercizio di qualunque mestiere o professione onesta, e che magari bruciano le tappe per mezzo di mercimoni e di “mezzani” non proprio raccomandabili. Eh sì, il mestiere più antico del mondo avrà anche cambiato nome, ma sempre quello è, così in basso (ecort) come in alto (“responsabili”). Grazie per i puntuali, precisi e partecipati commenti.

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