Gore Vidal a Ravello. Amore senza tempo

Michele Ingenito     

E’ una calda giornata di fine luglio, sabato 31 per l’esattezza. Dai giornali apprendo che Gore Vidal è di nuovo a Ravello, questa volta nello splendido “Hotel Rufolo”.Cinque anni fa la sua partenza suonò come un abbandono, quasi un tradimento per gli abitanti del luogo e della magica costa, una costa che egli aveva tenuto sotto il controllo del cuore e della mente dai balconi della sua “Colombaia”, la villa dei sogni, che lievita a strapiombo sul mare, incastonata com’era (e com’è) tra cielo e terra. Un diamante dell’anima tradito, all’epoca, dall’incedere impietoso del tempo e della vita e, perciò, ampiamente soggetto al perdono. Talvolta i sigilli sono brutali, soprattutto quelli dei grandi amori. Perciò, come recita l’arcano, “If you love something, set it free. If it comes back to you, it is yours. If it doesn’t, it never was.” (“Se ami qualcosa/qualcuno, lasciala/o andare. Se torna ti appartiene. Altrimenti, non ti è mai appartenuta/o!”).Per questo, gli abitanti di Ravello hanno lasciato fare, lo hanno lasciato andare. Ben sapendo che “Il tempo non è soltanto recuperabile,” – come scriveva l’amico e stimato collega Alberto Granese tanti anni fa ne (La maschera e l’uomo, 1976) – “ma in quei suoi ritorni esso finalmente rivela quelle essenze delle cose che, al suo primo presentarsi, aveva invece sottratte.” Esattamente come accaduto al più grande, forse, intellettuale e scrittore americano vivente. Perché, come insiste sapientemente Granese, benché in diverso contesto critico, anche per Gore Vidal “tra il passato che torna e il presente che lo ridesta c’è qualche cosa di comune, un carattere comune che, per il solo fatto di poter tornare, mostra di essere immune contro il trapasso, di avere in sé una capacità di permanenza, che già da sola è un attributo di universalità.” (pp. 71-72).Parole che calzano a pennello per questo ritorno inatteso e graditissimo, insieme, di un protagonista assoluto della letteratura mondiale. Un po’ acciaccato nel corpo per una condizione fisica che ne limita la libertà di andare, ma lucido e attento oltre ogni dire. Come sempre, come non mai.La memoria corre intanto velocemente indietro, ai primi anni ’90. Quando ci incontrammo tra quel cielo e quel mare dominati dalla  visione del mondo e dai cui balconi, rallegrati dal volo degli stessi “white birds on the foam of the sea” che Yeats avrebbe voluto essere, sognando di poterli imitare, un giorno, insieme alla donna amata, egli attingeva in abbondanza per i conseguenti  benefici di ispirazione e creazione. Nel salone colmo di libri e di luce proietta, discutemmo all’epoca di letteratura e, poi, via via, di politica e società. Della politica che contava e che conta nel mondo, quella americana, così come della società multi etnica e variegata che rende ricco il suo paese. Ricco e vittima, insieme, di contraddizioni, ferite, lacerazioni: nel bene e nel male essere che anima ed avvilisce, allo stesso tempo, la crescita, il progresso, lo sviluppo, mai in equilibrio tra loro, tanto spietati quanto ingiusti e ingenerosi per i più che non contano. Giù, dunque, botte e fendenti da orbi sin dall’epoca, per la sua visione critica da sempre nota e che, in riferimento al ruolo dello scrittore nella società, egli aveva da tempo circoscritto nelle parole e nel pensiero di quel suo personaggio di On the March to the Sea. Parole mai pronunciate fino a quel momento sui palcoscenici americani per un’opera pubblicata per la prima volta in Italia nel 1978 (Bompiani) e rappresentata solo in Germania:“Non è ciò che fai che ti rende ciò che sei, né ciò che dici o nemmeno quello che pensi. E’ ciò che fai nel mondo.”Cosa fece lo scrittore già celebre di quegli anni? Nelle società (in quella americana soprattutto) che creavano armi di distruzione di massa e, perciò, “malate” perché in grado di “far saltare il mondo”, di riprodurci all’infinito per poi “spazzarci via da soli”, creando da par suo un canale di pensiero forte ed istintivo la cui meta era soltanto la disperazione dell’essere per la consapevolezza conseguente del dramma dell’esistenza, Vidal aveva anticipato i tempi moderni.Tempi che hanno negativamente raccolto ed attuato ancora peggio di ieri quel grido ignorato ancor più oggi e che vede non solo l’America, ma l’universo che conta, sul baratro di un abisso scavato quotidianamente dal bisogno dirompente e ineluttabile del dominio, in un modo o nell’altro, in virtù della forza spaventosa della tecnologia, dell’avidità di conquista dei colossi economici della terra lanciati verso una globalizzazione che sia, e solo sia, rapina della materia, conquista dei mercati, stravolgimento degli equilibri, violenza fisica, tecnologica e umana su folle inermi e succubi quali sono e restano quelle dei consumatori indifesi. Nei suoi saggi tradotti in Italia, Le parole e i fatti, tradotti da Pier Paolo Paolini, Vidal affondò pesantemente la lama dei suoi pensieri critici nei confronti del potere, della politica, del costume, oltre che della letteratura, affidandosi e raccomandando la storia come tessuto da re-interpretare grazie all’esperienza del passato per evitare che si trasformasse in una “astratta retorica in nome della conservazione.” (Gianfranco Corsini). Sono ancora concentrato tra i ricordi di quell’incontro lontano mentre attendo a telefono la risposta dalla reception dell’albergo. Mezzogiorno è trascorso da poco. Chissà se, nei giorni a venire, il maestro troverà qualche minuto da dedicarmi, non fosse altro che in ricordo di un mai dimenticato incontro di tanti anni fa.E, invece, dopo un rapido consulto, evidentemente tra lui e Muzius al quale è stata inoltrata la linea, l’assistente e giovane artista francese mi conferma un appuntamento pressoché immediato: “Gore ti aspetta oggi alle cinque!” Incredibile, chi l’avrebbe immaginato, o sperato! Ho appena il tempo di organizzarmi. Nonostante tutto ‘spacco’ il minuto ed entro nel parcheggio del “Rufolo” alle 17.00 in punto. Intravedo Gore seduto al centro del giardino, che mi aspetta; lì, a ridosso del muretto che affaccia sulla parte bassa del paradiso: il tratto di costa che corre in direzione di Capodorso. Veste “all’americana”, in maniera semplice e senza enfasi. Camicia scura leggermente slacciata, sguardo trasparente per i suoi occhi chiari e curiosi, un po’ triste, forse, per una tristezza che naviga nel passato attraverso i ricordi che una luce tersa proietta nella profondità assoluta del suo animo e ingenerosamente violati da uno sguardo attento e vivace restio al segreto.  Anche se, a tratti, quello stesso sguardo appare sferzante lama che, proprio tra i ricordi, continua ad affondare ripetutamente quasi ad evocare la sua celebre raccolta di saggi del ’72, Home to Daniel Shays. Mi accoglie con un sorriso breve, ma generoso. Un saluto è un saluto. Che, da parte mia, ha il sapore non voluto di circostanza, quando vorrebbe essere caloroso ed evocativo insieme in omaggio alla memoria di un antico incontro. E’ la soggezione, purtroppo, che incute inevitabilmente un ‘mostro’ della letteratura mondiale. Parliamo del più e del meno, tanto per rompere il ghiaccio. Parla soprattutto con gli occhi, mentre Muzius gli offre premuroso un ricco sandwich a base di pollo. Gore si illumina, accettando di buon grado. E’ digiuno da ore e quasi lo divora. Senza formalismi o scuse di circostanza. Come fossimo amici di vecchia data. Poi torna con il pensiero e la memoria al ruolo dell’artista e alle sue rappresentazioni. Non tanto per conviverci, come intendeva, essendo nota la tendenza a dimenticare ciò che si è prodotto; bensì a coesistere con il pensiero di ciò che si è fatto e di ciò che tuttora si pensa di fare. Così scriveva, infatti, Vidal, commentando un saggio dal titolo omonimo ispiratogli da un libro su di lui scritto nei primi anni ’70 da un giovane professore, Ray Lewis White, della North Caroline University. Questa volta, però, sono io a fargli omaggio di una mia ‘creatura’. Appare sorpreso e direi compiaciuto; il tema lo stimola, riguarda l’America oltraggiata senza pietà da altri barbari in un ormai lontano 11 settembre 2001, un tempo che ottenebra di dolore la memoria, ma non l’annulla. Anche Muzius, attentissimo e premuroso verso il maestro, appare sorpreso e interessato. E’ anche lui artista e attore. E, quindi, dotato di raffinata sensibilità. Ne discutiamo nei dettagli, ma senza enfasi. Lo informo dei miei contatti con Robert Katz. “E’ ancora vivo?” sussurra preoccupato. Lo tranquillizzo. “Sì, anche se, negli ultimi tempi, qualche ‘acciacco’ alla vista lo fa soffrire un po’ troppo!” Generosamente Gore non esclude di parlare con il suo agente letterario di questa mia cosa. Poi, forse a mò di augurio, si sfoga: “All’Editore Pacini Fazzi avevo consigliato tempo fa di acquistare i diritti per l’Italia de Il Codice da Vinci di Dan Brown. Non mi ha ascoltato. Sta ancora lì a mordersi le mani!”, sorride dispiaciuto e in agrodolce per l’amico editore.Intanto, tra una pausa e l’altra, il tempo vola via. Da più di un’ora abbiamo rastrellato tra i ricordi di ieri e il tempo di oggi. Me ne vado un po’ triste, con l’auspicio di rivederci l’anno prossimo. Ma prima di alzarmi non resisto al desiderio di farmi aggiornare con data odierna la dedica di un suo libro donatomi tanti anni fa. Gli tendo la mano, mentre Muzius accenna ad accompagnarmi. Lo freno, preferisco andarmene in silenzio, come quando si lascia un vecchio amico. Che tale non è per intensità di frequentazioni, fatto salvo, forse, un tipo di frequentazione diversa e più profonda insieme. Quella della lettura dei suoi romanzi, delle sue opere teatrali, dei suoi saggi. Frequentazioni autentiche del pensiero attraverso le sue letture, che rendono superfluo voltarmi indietro, aiutandomi per questo ad andare via senza rimpianti.