Non è bello (solo) ciò che piace

Ferdinando Longobardi

Il patrimonio figurativo e immaginario che il mondo classico ci ha fatto pervenire attraverso la letteratura, la scultura, l’architettura e il mito, è talmente cospicuo ad affascinante da colpire chiunque. Si potrebbe anzi definire tutta la civiltà classica come la “civiltà dell’espressione” per eccellenza. E proprio l’espressione, artistica, figurativa, linguistica, è senz’altro una delle caratteristiche che connotano maggiormente anche la nostra civiltà occidentale. La quale, se è forse nata una prima volta contrapponendosi all’invasione persiana delle poleis elleniche, si è senza dubbio salvata una seconda volta respingendo, nel corso del VIII e poi del IX secolo d.C, l’invasione iconoclasta che traeva la propria ispirazione da altre, diverse culture del deserto: aprendo così il campo, specialmente nella pars occidentalis della futura Europa, al susseguirsi delle rinascite artistiche e culturali; ma anche vaccinandoci, speriamo per sempre, dalle pericolose derive iconoclaste e censorie frequenti pure nella contemporaneità, le quali in paesi a noi non lontani costituiscano di fatto il pretesto per reprimere ogni libera espressione del pensiero e della creatività umana. Il fatto, poi, che secondo un diffuso parere, si stiamo trasformando in una “civiltà dell’immagine” tout court, non fa che accentuare la possibilità dell’affermazione di una simile concezione prevalentemente estetica del mondo antico. Ma in tutto ciò è all’opera una grave fraintendimento, tipico dell’età contemporanea: mi riferisco all’errata opinione che l’apprezzamento della bellezza, in tutte le sue forme, costituisca un valore esclusivamente estetico. “Belle” insomma, sarebbero le sculture dell’Acropoli, “belle” le avventure di Ulisse, “belle” le liriche di Pindaro: chi si limita ad affermare questo dimentica che la bellezza che ci proviene copiosamente dal mondo antico non costituiva affatto per coloro che l’hanno creata semplicemente un valore estetico, ma soprattutto un valore etico, vale a dire formativo e morale. Sicché, fino a quando non ci saremo liberati di una concezione formalistica della bellezza non saremo in grado di comprendere il valore più autentico del patrimonio classico. Si sente ripetere, ad esempio: “I miti sono belli, sono favole: dunque” – qual è la conclusione? – “diamoli ai bambini!”.Ma i miti non sono favole. E gli uomini che li hanno creati non erano infantili. Infantile, nel senso di ingenua, è semmai la nostra convinzione che gli antichi lo fossero. Invece la bellezza è una cosa estremamente seria: anche perché in genere rimanda ad altro.