Brasile: pesanti sbarre per i giovani carcerati

padre Savio Corinaldesi, sx

Ci sono luoghi che cerco di evitare, quando possibile. Tra questi, i commissariati di polizia e le carceri. Sono luoghi in cui la sofferenza umana si manifesta in forma concentrata, lasciandomi senza difesa. Allora cerco di evitare. Ma il Signore è bravissimo a preparare la trappola giusta per farmi cadere proprio là dove mai sarei andato spontaneamente. E’ successo qualche mese fa. Un collega, dovendo trasferirsi in un’altra nazione,mi chiese: ”In custodia della polizia federale c’è un giovane detenuto. E’ straniero, non sa la lingua, non può comunicare con la famiglia. Potresti visitarlo ogni tanto?”.  Ed eccomi sulla porta di un mondo sconosciuto. Il giovane straniero vuole sole una cosa:parlare della sua situazione,della speranza che lo sostiene; vuole avere notizie dei genitori e dei fratelli lontani;vuole che loro sappiano di lui. Poco a poco divento un ponte tra il giovane e i suoi cari. Mi vedo inserito nell’intimità di una famiglia di cui fino a ieri non conoscevo l’esistenza,al corrente di segreti gelosamente custoditi, spettatore di una vita familiare sconvolta dal’infelice bravata del figlio. Un giorno ricevo una telefonata: ”N. è stato trasferito al centro di reclusione provvisoria”. La “Papuda”, la famosa prigione di Brasilia,di cui tanto avevo sentito parlare, adesso ci sono dentro. Un altro mondo,una diversa disciplina, altri rituali. Le difficoltà per arrivare ai carcerati sono grandi. “Hai il coraggio di sottometterti all’ispezione?”.Detto fra noi,spogliarsi davanti a un estraneo non è un divertimento,ma non è neanche la fine del mondo. Le guardie sono rispettose. D’altra parte le norme di sicurezza sono necessarie. In fila d’attesa,conosco una categoria di persone per me nuove:i parenti dei carcerati. Alcuni, già abituati, orientano i principianti; altri sono vergognosi. Devono leggermi in faccia che sono un prete: uno timidamente mi chiede la benedizione; un altro vuole darmi il suo posto nella fila; un terzo mi confida che muore di vergogna per essere in questo luogo. “E’ mio figlio. Non mi rassegno che sia venuto a finire qui…”. L’ispezione degli oggetti che portiamo ai carcerati è minuziosa, richiede tempo. Ne approfitto per conoscere il sofferente mondo dei familiari dei carcerati. Poi viene l’ispezione personale. Ho apprezzato la delicatezza della guardia che fa il suo lavoro con professionalità e semplicità. Finalmente entriamo. Ho perso il conto del numero di porte attraversate,di catenacci, di sbarre, di controlli…Non c’è da meravigliarsi che i detenuti si sentano sepolti vivi. Ed ecco i carcerati, tutti vestiti di bianco, sparpagliati per il  cortile. Quasi tutti giovani. Chi ha la grazia di una visita cerca un angolo discreto per godersi quei momenti a lungo desiderati. Chi non ha visite guarda da lontano, con tristezza. Passando vicino, li saluto con un cenno di mano. Chi sono io per pensare ai loro crimini? Per me sono povere creature che la vita ha gettato su strade sbagliate. Non sta a me giudicare. Grazie all’esperienza missionaria di molti anni, nessuna diversità etnica mi fa dimenticare l’unica natura umana di cui facciamo parte. Mi viene in mente ciò che hanno scritto i Vescovi nel documento di Aparecida (2007):”Molte persone devono compiere la pena in prigioni disumane,dove si registra traffico di armi e di droga,superaffollamento,torture,assenza di programmi di riabilitazione,crimine organizzato che impedisce un processo di rieducazione e l’inserimento nella vita produttiva della società. Al momento,purtroppo,le carceri sono spesso scuole di delinquenza”(DAp 427). Quando il collega mi ha chiesto di visitare il giovane arrestato in custodia della polizia federale, mi ha inserito nell’Istituto Migranti e Diritti Umani (IMDH) nel settore che accompagna i cittadini stranieri che hanno dei problemi con la giustizia qui in Brasile. Coordinato da suor Rosita Milesi, il gruppo è formato da volontari che visitano i detenuti stranieri, li tengono in contatto con le loro famiglie e fanno il possibile perché non si sentano totalmente abbandonati. (fonte: Missionari Saveriani,8-2010)