Caso Google Vividown. La Procura attacca

 

Michele Ingenito

Mano pesante dei PM della Procura della Repubblica di Milano nei confronti di quattro dirigenti Google ritenuti penalmente responsabili della divulgazione di un video riguardante il pestaggio di un disabile. Secondo i magistrati milanesi è stata violata e danneggiata la dignità umana di un ragazzo down il quale, nel 2006, fu pestato e filmato dai propri compagni di classe, finendo poi online grazie al motore di ricerca più potente del mondo.Il mancato controllo da parte di Google per una ingiustificata libertà di iniziativa economica prefigura, quindi, una vera e propria violazione della privacy e conseguente diffamazione. Da qui la richiesta di condanna di un anno di carcere per i dirigenti David Drummond, George De Los Reyes e Peter Flesicher, mentre il quarto dirigente Google, Arvin Desikan, colpevole solo di diffamazione secondo i giudici della Pubblica Accusa di Milano, rischia sei mesi. L’impianto accusatorio dei PM milanesi Francesco Cajani e Alfredo Robledo si regge su un concetto di fondo. A loro avviso Google privilegia esclusivamente il guadagno, con l’intenzione di monetizzare i video più cliccati. Non a caso, facendo riferimento al caso oggetto del contendere, i magistrati hanno evidenziato nel corso dell’udienza del 25 novembre scorso come il video on line del ragazzo down malmenato e filmato dai propri compagni sia stato cliccato ben 5.500 volte nel volgere di pochi giorni soltanto, diventando uno dei più visti in assoluto. Ciò ha costituito una palese violazione della dignità umana, senza che nessuno dei responsabili di Google avesse adottato i necessari controlli preventivi a tutela della privacy del cittadino, a maggior ragione se cittadino-down.La linea della Procura della Repubblica è stata condivisa dalle parti civili – l’Associazione Vividown, rappresentata dagli avvocati Guido Camera e Filippo Sgubbi – e dallo stesso Comune di Milano.L’ente pubblico milanese ha chiesto 300,000,00 euro di risarcimento a Google: la metà per danni patrimoniali e il rimanente 50% per danni morali. Un accordo tra le parti direttamente interessate – la famiglia del ragazzo e l’azienda Google – è stato intanto già raggiunto, con conseguente ritiro della querela da parte della famiglia del ragazzo.Non c’è dubbio che la sentenza del Tribunale di Milano su questo caso è attesissima. E’ una sentenza di civiltà, innanzitutto, che non potrà non tenere conto della impossibilità del cittadino di difendersi nei confronti di un mostro potentissimo che, al momento opportuno, dà l’impressione di agire indisturbato nei confronti di qualsiasi malcapitato finito nella pentola dell’interesse mediatico a senso unico.Il 16 dicembre prossimo toccherà alla difesa. Un moderato ottimismo alberga tra i difensori dell’azienda, i quali sosterranno la mancanza dell’obbligo di controllo preventivo in virtù di uno specifico decreto legislativo. Solo nel caso di intervento diretto del giudice, il provider interessato ha l’obbligo di rimuovere filmati contestati. E ciò è esattamente quanto Google ha fatto nel caso del filmato riguardante il ragazzo down.A nostro avviso un siffatto decreto appare assurdo in sé. Nessun decreto, infatti, può legittimare comportamenti dannosi a carico dei cittadini indifesi. Soprattutto quando colossi del potere economico si arricchiscono a loro danno. E’ una elementare norma di buon senso che rafforza, di fatto, la tesi della pubblica accusa e del suo richiamo alla inesistenza di una zona franca di non applicabilità di alcune leggi dello stato.Vista da questa angolazione critica e di pensiero, appaiono ineccepibili le responsabilità oggettive di coloro che, non esercitando a suo tempo il dovuto controllo sulla divulgazione di un filmato non autorizzato, hanno determinato danni di varia natura al giovane ragazzo-down. A prescindere dalle valutazioni squisitamente giuridiche della vicenda, riteniamo perciò inammissibile la superficialità con la quale la stessa si è sviluppata. Il principio dell’interesse economico prevalente su tutto e su tutti a discapito della libertà dell’individuo a vedere tutelata la propria privacy, il suo conseguente diritto a non vedere pubblicati filmati e/o notizie molto spesso infondate e che per anni arricchiscono immoralmente le pance grasse di colossi mondiali della informazione non possono non trovare una risposta ferma e determinata da parte della giustizia.