Epimenide e la mano che disegna se stessa

 

Fulvio Sguerso

Gentile lettore, la prego di credere che nel discorso che seguirà non c’è niente di vero, salvo la proposizione “questo discorso è completamente falso”.  A questo punto sta a lei decidere se continuare a leggere abbia un senso e, una volta optato per la lettura, quale senso possa mai avere un discorso che, mentendo, dice la verità e, dicendo la verità, sta mentendo. Come forse avrà dedotto da queste prime battute ci troviamo dinanzi al paradosso del mentitore, altrimenti detto di Epimenide cretese (avendo i cretesi, nell’antichità, fama di bugiardi). Questo paradosso appartiene alla classe o insieme denominato degli Strani Anelli dallo studioso cognitivista Douglas R. Hofstadter (Goedel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi), classe a cui appartengono le proposizioni così dette indecidibili, come il paradosso, o meglio l’antinomia scoperta da Bertrand Russell, secondo la quale risulta impossibile stabilire se l’insieme di tutti gli insiemi sia contenuto o meno nel suo insieme; ovvero se la classe delle classi che non contengono sé stesse, contenga sé stessa o meno; ma anche opere d’arte, come la litografia Mani che disegnano dell’ artista olandese M.  C. Escher, dove è impossibile distinguere la mano che disegna da quella che è disegnata; o come uno dei canoni dell’Offerta musicale di J. S. Bach, quello intitolato “Canon per Tonos”, a tre voci, in cui, dopo una serie di modulazioni ascendenti e discendenti, alla fine ci si ritrova al punto di partenza e si ha l’impressione che la fuga potrebbe ricominciare e continuare ad infinitum. E il teorema di Goedel che cosa ha a che vedere con tutto questo? Non è una domanda a cui si possa rispondere, come si suol dire, in due parole (tanto meno da parte di un profano come il sottoscritto che solo di recente ha scoperto l’intima connessione tra i numeri e la bellezza!); non sarà per caso se, per rispondere a una domanda simile della nipote Valeria, il matematico savonese Bruno Spotorno comincia quello che lui chiama il suo “piccolo racconto” sui fondamenti logici dell’aritmetica intuitiva, sul mutamento dei concetti di spazio, di misura e di distanza, sul macrocosmo e il microcosmo della fisica quantistica, sull’impossibilità di separare il fenomeno osservato dall’occhio che osserva (cfr. gli inquietanti paragrafi sul gatto di Schroedinger), sui tentativi di formalizzazione dell’intero corpus dei teoremi e dei postulati logico-matematici, e infine sullo scacco che questa pretesa di coerenza formale esaustiva ed assoluta ha subito proprio grazie al Teorema di Incompletezza di Kurt Goedel, dagli Elementi di Euclide (Una sinfonia intellettuale. Il teorema di Goedel, Natrusso communication, 2007).  Ora, dal momento che non è possibile riassumere la trama di questo vero e proprio bildungroman logico- matematico (ma anche con risvolti teologici: troviamo all’inizio una pagina di San Giovanni della Croce e, alla fine, alcune luminose parole di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, sui limiti del nostro intelletto e sull’incommensurabile potenza della fede) non sarà forse vano fermarsi su quelle proposizioni o quei passi che riguardano possibili punti di contatto e di intersezione tra logica, psicologia, etica ed estetica. Prendiamo, ad esempio, la questione della corrispondenza tra il linguaggio, cioè il sistema di segni adoperato, e gli oggetti di cui si parla; finché si tratta di designare un oggetto concreto – poniamo: la mano che sta scrivendo – possiamo ancora trovare un riscontro alla frase in italiano: “questa è una mano che scrive”; ma se i segni si riferiscono a concetti  come quelli di “numero”  “punto”  “zero” “retta” o, addirittura, “infinito”, come possiamo verificare la corrispondenza tra le nostre parole e gli oggetti designati? Se questo problema riguardasse solo l’aritmetica e la geometria potremmo anche lasciarlo agli addetti ai lavori; ma se tra le parole adoperate compaiono gli aggettivi “vero” , “falso” e “probabile” allora non possiamo più disinteressarci del significato che tali aggettivi assumono per noi, nella nostra vita quotidiana, nel rapporto che stabiliamo con noi stessi e con gli altri, insomma nel nostro modo di essere e di agire nel mondo. Viene per tutti il momento in cui ci chiediamo se esiste una verità assoluta, oggettiva, inoppugnabile, o se dobbiamo accontentarci di verità sempre parziali, relative e temporanee; in altri termini: esistono verità al di fuori del linguaggio e della nostra esperienza? “Di solito – afferma Bruno Spotorno –  la verità inerisce alle proposizioni in virtù della natura del mondo: una proposizione è vera quando rispecchia il mondo, quando possiamo confrontarla con la nostra esperienza del mondo”. Ma la nostra esperienza del mondo non può che essere soggettiva: la mia esperienza del mondo non può essere la tua, così come la tua non può essere la mia. Ci sono dunque tante verità quante sono le esperienze del mondo? Non proprio: esistono delle strutture logico-linguistiche “oggettive” che valgono a priori: “Avviene infatti che il sistema descrittivo implichi che date certe esperienze altre debbano seguirne; dunque è soltanto per via delle relazioni di una proposizione con un’altra che le proposizioni possono asserire previsioni suscettibili di esperienza”. In ogni caso è impossibile enunciare una qualsiasi verità al di fuori delle strutture logico-linguistiche e delle “regole che ne governano l’uso”. Ma queste regole sono date una volta per tutte o possono essere modificate? Qui conviene citare per intero un passo di questo avvincente “ romanzo logico-matematico”: “Come si è detto le proposizioni e le regole che ne governano l’uso hanno a che fare solo indirettamente con l’esperienza. E tuttavia l’esperienza può suggerire di modificare anche le leggi della logica. Ovviamente ciò avverrà con difficoltà, ed anche, è auspicabile, con prudenza poiché le leggi della logica sono al fondamento della struttura conoscitiva. Ma può avvenire; così è avvenuto, è stato suggerito che avvenga, nel caso della meccanica quantistica. Grande è la forza del conservatorismo, e tuttavia anche le leggi della logica, proprio in ragione della loro centralità nel sistema di conoscenza se rivisitate possono contribuire ad una radicale semplificazione di quello stesso sistema.” Dunque neppure le strutture logiche sono eterne. Ma allora non esistono verità eterne? E le verità matematiche esistono anche al di fuori del soggetto che le pensa? “Che cosa c’è alla base della nostra capacità di accedere alla verità matematica? Si ha l’impressione che la matematica esista di per sé. Nella nostra comprensione della matematica, ogni singolo oggetto del mondo platonico è in qualche modo accessibile, almeno in linea di principio, alla nostra Mente” . Qui si apre la questione del così detto “platonismo matematico”  e la logica sconfina curiosamente nella metafisica. Ma lasciamo per ora in sospeso la domanda sulle verità ultime ed eterne (“La verità, la verità, che cosa è mai la verità?” si chiedeva Pilato davanti a Cristo) e domandiamoci se le proposizioni indecidibili hanno qualcosa a che vedere con le nostre modalità abituali di comunicazione. Prendiamo una variante del paradosso di Epimenide: il paradosso così detto del barbiere, e leggiamolo nella versione usata da Reichenbach (1947), citato da Paul Watzlawick in Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio, 1971). In questa versione il barbiere è un soldato a cui viene ordinato dal capitano di radere tutti i soldati della compagnia che non si radono da soli, e nessun altro. E’ evidente che, secondo logica, non può esistere un barbiere siffatto. Questo però non esclude che esistano capitani che danno ordini impossibili. Commenta Watzlawick: “Entro lo schema di questa relazione complementare (ufficiale e subordinato), viene data una ingiunzione che deve essere obbedita, ma per essere obbedita deve essere disobbedita  (l’ordine definisce il soldato come uno che si rade da solo se e soltanto se egli non rade se stesso, e viceversa). Inoltre la persona che in questa relazione è nella posizione one-down non è in grado di uscir fuori dallo schema e quindi di dissolvere il paradosso commentandolo, cioè metacomunicando su di esso (per non incorrere in un atto di insubordinazione).  Ebbene, una persona presa in una simile situazione è in una posizione insostenibile. Quindi, mentre da un punto di vista puramente logico un barbiere del genere non esiste e l’ordine del capitano è privo di significato, nella vita reale la situazione appare assai diversa. I paradossi pragmatici, le ingiunzioni paradossali in particolare, sono in realtà ben più frequenti di quanto si sia disposti a credere. Non appena cominciamo a considerare il paradosso in contesti interattivi, il fenomeno cessa di essere soltanto una occupazione affascinante del logico e del filosofo della scienza e diventa una faccenda di assoluta importanza pratica per la salute mentale dei comunicanti, siano essi individui, famiglie, società o nazioni”. Con le ingiunzioni paradossali o contraddittorie siamo così passati dal cielo dei concetti puri della logica e della matematica al mercato della comunicazione e del linguaggio comune, in cui si giocano continuamente quelli che Wittgenstein ha chiamato appunto “giochi linguistici”; alcuni di questi però si configurano, abbiamo visto, come gli Strani Anelli di cui parla Douglas R. Hofstadter, e divengono allora giochi senza fine dove si rimane impigliati in maniera tale da non sapere più come uscirne. Si tratta di quelle situazioni insostenibili e patologiche definite da Gregory Bateson di “doppio legame”. Non mancano purtroppo gli esempi nella vita quotidiana in cui non sempre i rapporti tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra insegnante e allievi, tra superiore e subordinato o, se allarghiamo il campo alla politica, tra governanti e governati,  oppure tra superpotenze e stati “alleati” (non parliamo nemmeno degli “stati-canaglia”) sono caratterizzati dal reciproco rispetto e da  stili comunicativi impeccabili. Si comprende immediatamente che non si tratta di una mera questione di correttezza formale se si pensa che le situazioni di “doppio legame” sono spesso all’origine di processi morbosi come la schizofrenia, la depressione, la devianza e la tossicomania. Sul piano internazionale appare evidente che, in certi casi, questi “giochi senza fine” significano guerre infinite. Ma torniamo al teorema di Goedel, paragonato da Douglas R. Hofstadter a una perla contenuta nell’ostrica della sua dimostrazione; in che senso possiamo  scorgervi uno Strano Anello? Il teorema, tradotto in volgare, afferma che “Tutte le assiomatizzazioni coerenti dell’aritmetica contengono proposizioni indecidibili”. E questa è la perla. Dov’è lo Strano Anello? Non lo si vede facilmente, osserva Hofstadter, perché “è nascosto nell’ostrica,  cioè nella dimostrazione. Il cardine della dimostrazione del Teorema di Incompletezza di Goedel è la scrittura di un enunciato matematico autoreferenziale, alla stesso modo in cui il paradosso di Epimenide è un enunciato autoreferenziale del linguaggio. Ma mentre è molto semplice parlare del linguaggio naturale nel linguaggio naturale, non è affatto facile vedere come un enunciato sui numeri possa parlare di se stesso.”  L’intuizione di Goedel è stata quella di far parlare un enunciato dell’aritmetica di un altro enunciato dell’aritmetica (o anche di se stesso) per mezzo di numeri. Questa codificazione numerica permette di leggere “gli enunciati dell’aritmetica a due diversi livelli: come enunciati dell’aritmetica e come enunciati su enunciati dell’aritmetica.”  La dimostrazione (l’ostrica) goedeliana conduce alla conclusione paradossale che alcuni enunciati sono indimostrabili! E quindi tutti i sistemi come quello dei Principia Mathematica di Russell e Whitehead che pretendono di risolvere i paradossi falliscono proprio in questo,  e perciò sono incompleti. Così il serpente che si morde la coda, cacciato dalla porta dai tentativi di formalizzazione della matematica, rientra dalla finestra aperta dal teorema di Goedel. Dunque siamo tornati al punto da cui eravamo partiti? Ci troviamo presi in un gioco di specchi? In un canone infinito di J. S. Bach? In un quadro di Magritte o di Paul Klee? In un racconto di Borges o di Calvino?  Insomma, dentro un’opera d’arte?“E’ consuetudine – scrive Bruno Spotorno – ricordare a questo punto le figure di Escher, gli alberi di Mondrian, i cenni alla musica di Bach, di Mozart e di Beethoven; un richiamo ai temi delle arti figurative, pittoriche e della musica: inutili abbellimenti per un dialogo impossibile?”  Non solo è possibile ma è necessario; basti pensare all’armonia musicale e alla “divina proporzione”  in pittura e in architettura, alle regole della prospettiva lineare adottate dai grandi artisti del Rinascimento, agli schemi metrici e prosodici in poesia. “Un unico tema guida quelle riflessioni: il concetto di trasformazione. Un concetto tipicamente matematico. Esso vale a interpretare le figure di Escher, l’inestricabile complessità delle figure frattali, il “canone” di Bach. Esso appare evidente nelle grandi architetture dei saperi, per restare nella matematica dalle intuizioni euclidee alle assiomatizzazioni di Hilbert, da Peano a Goedel”.  E su questo accordo armonico, gentile e paziente lettore, si ferma questa mano che scrive.

2 pensieri su “Epimenide e la mano che disegna se stessa

  1. Caro Fulvio, parole forti chiare, a mio avviso attualissime. La filosofia è attuale, occorre “solo” interiorizzarla. Tu lo fai magistralmente. Grazie.
    Giovanna Rezzoagli

  2. Sull’attualità della filosofia, cioè del pensiero, o meglio dell’uomo, anzi, degli uomini e delle donne che pensano e vivono e agiscono (non sempre in conformità con il loro stesso pensiero)non ho dubbi. Qualche dubbio lo nutro sulla considerazione in cui oggi è tenuta la filosofia, destinata ad andare, come ai tempi del Petrarca “povera e nuda”. Ti ringrazio per le gentili parole.
    Fulvio Sguerso

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