Sicurezza: morti bianche

di Aldo Bianchini
“Un lavoro per vivere non per morire” è stato questo lo slogan che, più di tutti, ha tenuto banco nel contesto della manifestazione che si è tenuta per le vie di Torino in ricordo delle sette vittime della Thyssen Krupp, l’incendio che un anno fa devastò le famiglie di scrupolosi operai che avevano, prima ancora della vita, gran parte della loro esistenza terrena. Al di là della commemorazione del tragico evento, quello che ha colpito di più è stato il senso che i tantissimi lavoratori hanno voluto dare alla manifestazione per non lasciarla scadere a mero ricordo luttuoso. I dimostranti, capeggiati dall’unico sopravvissuto di quella orrenda strage, hanno in maniera molto composta lanciato un segnale di protesta ben preciso e duro all’indirizzo della politica e dei sindacati, rei entrambi di non aver mantenuto l’obiettivo della sicurezza al primo posto in assoluto o quanto meno al centro di ogni possibile progettualità politica, sindacale e imprenditoriale. Lo striscione che si vede nella foto è la sintesi delle giuste rivendicazioni di un mondo del lavoro che da decenni aspetta l’applicazione pedissequa delle leggi che governano la sicurezza e l’igiene nei posti di lavoro fin dal lontano 1955, passando per lo statuto dei lavoratori del 1970 per arrivare al D. L.vo n. 626/94 che ha sintetizzato le leggi già esistenti con le direttive europee degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Ma che cosa realmente è stato fatto nel nostro Paese? Niente o quasi. Tutto è lasciato, sembra incredibile ma è vero, alla buona volontà dei datori di lavori ed anche dei lavoratori; i primi non attuano mai per scelta spontanea una rigorosa linea di sicurezza, i secondi spesso, molto spesso, lasciano scorrere le cose così come capita; nessuno dei due, insomma, ha imboccato il viale della cosiddetta “cultura della sicurezza”, ben sapendo entrambi che ad essa dovrebbero essere destinati ingenti capitali da una parte e professionalità e dedizione dall’altra. Come sempre la giusta risposta sta nel mezzo delle cose. Ad esempio, negli ultimi trentacinque anni, alla Thyssen non era mai accaduto un solo infortunio grave e il gruppo godeva anche di agevolazioni tariffarie dall’Inail in materia di premi assicurativi; poi è esploso il dramma e tutti si sono accorti che qualcosa in quella fabbrica non era al posto giusto. Colpa di mancati severi controlli o superficialità dei responsabili di fabbrica (dirigenti e operai)?  Probabilmente c’è stata sia l’una che l’altra cosa, a disdoro dell’ineffabile Raffaele Guariniello, che sulla Thyssen ha costruito buona parte delle sue fortune professionali e che oggi vediamo in prima fila a stigmatizzare un’accusa devastante contro l’ a.d. della fabbrica austriaca, diretta a consolidare l’assunto che la “voluta carenza di  misure antinfortunistiche” può determinare l’imputazione di “delitto volontario” e non colposo, come fino ad oggi  sancito non soltanto dalle norme, ma anche da una consolidata giurisprudenza in materia. Al momento il GIP ha accolto la tesi accusatoria ed ha rimesso gli atti al GUP, che dovrà decidere o meno per il rinvio a giudizio e con quale tipo di imputazione a carico del responsabile dello stabilimento torinese. E dopo le recenti numerose “morti bianche” delle ultime settimane e  l’ennesimo appello del Capo dello Stato sembra che le sabbie mobili, in cui tutto il “sistema sicurezza” si era impantanato, stiano lentamente muovendosi in senso positivo. Si tratterà solo di aspettare con la speranza che, nelle more, altre “morti bianche” non vengano a turbare la serenità delle imminenti festività di fine anno.