Spunti di riflessione nella silloge “L’albergo dei morti” di Fabio Dainotti con postfazione di Nicola Miglino

Spunti di riflessione nella silloge “L’albergo dei morti” di Fabio Dainotti con postfazione di Nicola Miglino

Carlo di Legge

Il nuovo libro di poesia di Fabio Dainotti “L’albergo dei morti” con postfazione di Nicola Miglino ed. Piero Manni, S. Cesario di Lecce, 2023, inizia, titolo in copertina, con una vera provocazione. Poi tien fede al titolo. L’albergo dei morti; il punto è che, per una specie di sineddoche o anche per analogia, la vita stessa è tale, albergo di morti, ma nessuno vuol sentirselo ricordare, meno che mai nel titolo d’un libro di poesia. Secondo l’antica sapienza, è perché siamo nati. Certamente è scomodo scrivere un libro di poesia con questo titolo, libro per di più alquanto corposo, ponendosi dalla prospettiva di chi leggerà: si leggerà? E si può aggiungere: un libro del genere? Ma direi un genere singolare, se mi si passa questa specie di ossimoro. Bisognava allora affrontare il compito di scrivere, un po’ una scommessa: scrivere un libro di poesia che, invece della leggerezza, o dell’evasione, cosa che alcuni intendono comporti la poesia, scrivesse di cosa che trattano meglio i filosofi o i teologi.

L’autore lo ha fatto. La lettura risulta attraente e direi che Dainotti ha vinto la scommessa.

Si capisce subito che si trattava di una scelta di componimenti, come riferisce anche il postfatore, perlopiù riferiti all’età giovane del poeta. Così la memoria si mescola spesso all’adesso e i morti ai vivi, o le immagini di oggi stanno assieme ai ricordi dei morti, tenuti vivi, in quanto li si conobbe e frequentò.

Anche una specie di come eravamo (non è il solo né il principale argomento del libro, comunque), a volte giustapposto al come siamo. Così diventa del tutto “normale” (a chi non avviene, per chi non inizia, che abbia superato i quaranta-cinquanta?) che il “lavoro dei morti” venga in primo piano, nel doppio senso del genitivo: che ci si occupi dei morti, o che i morti, in qualche loro modo, balzino fuori dalle carte, dalle foto, dal mare della memoria.

Ma è importante punto di vista, testé raggiunto, proprio sul mestiere di vivere:

Scene di vita, stanza interno tre,

del popolare vecchio casamento,

dove la vita scorre sempre uguale

e moriamo ogni giorno, ogni momento;

ma il faut tenter de vivre, sì, tentare… (76).

Ecco, l’eleganza del verso s’intende subito e anche questo la dice lunga sulla qualità del libro. In primo luogo ci s’imbatte in versi lunghi, quasi perfettamente allineati dal punto di vista metrico, ma posti là con naturalezza, con la rima che compare, come trovata a caso, un po’ con voluta negligenza, un understatement. Non tutti i componimenti sono in questa guisa; ma spesso compaiono momenti preziosi, anche dal punto di vista stilistico. Non può darsi altrimenti. Se si considera l’intero testo, le occorrenze divengono ricorrenze. L’autore è, come riportato in quarta, traduttore dai testi classici greci e latini, dunque uno che sulla metrica la sa lunga, e se ne deve assumere la mastery, la padronanza della lingua.

Così pure nel caso del governo della lingua, parafrasando un titolo celebre di Seamus Heaney, s’impone la presenza d’una doppia valenza del genitivo. L’autore con la lingua italiana fa ciò che vuole: allora, come leggiamo ottimamente scritto in postfazione, gli usi un po’ quotidiani e qualche volta anche alquanto sboccati della lingua sono funzionali alla intenzione di rendere momenti di vita vissuta, come li si  visse, o almeno cogliendone quella che nella intentio di chi scrive diventa l’essenza di quel momento di cui la poesia testimonia: così in Mattino milanese (82), memoria d’una parte dei trascorsi, la “mula triestina”, la domestica di casa andrà al convegno d’amore stasera,

preparata, con rossetto

abbondante, le poppe rilevate…

un odor dolce

di femmina e di cipria, scherzerà

a proposte infuocate, lei, la Rina, mica

una nuova Beatrice, ma una fica

che levati…

Ecco, gli usi qui presenti della lingua dunque non sono in genere quelli del poeta laureato, sebbene  s’intenda ormai che l’autore, quando vuole (e certamente in altri suoi libri lo fa), potrebbe mostrarsi tale. Nel caso, invece, soltanto qua e là si lascia che si affacci, quasi malvolentieri, quasi lasciandosi un po’ pregare e corteggiare, il modo colto della lingua e tuttavia lo si avverte anche nei punti più piccanti. Ma che dire, anche qui, del tipo di verso usato, sempre alquanto controllato, come se, componendo, si leggesse ad alta voce? Così della nutrita galleria del femminile assumo qualche verso di Sera (39 sgg.): un poemetto – sul male d’amore a senso unico, non dichiarato e perciò non corrisposto. Solo per dare un’idea:

La bionda effigie nel ritratto ovale

splende su sfondo oscuro, a grandezza naturale,

madonna nera che non posso amare

ma soltanto adorare da lontano…

Quasi ogni giorno ti vedo passare

col nastro tra i capelli e mi fa male

non fermarmi con te, con le parlare

a lungo sotto gli alberi del viale…

 

Era  appena spiovuto, uscii, ma senza

speranza di vederti: era già sera.

Proprio tu lungo il viale ai baci appesa

d’un altro amore venivi leggera…

 

è tempo di passare all’inazione…

 

Incredulo mi scopro

esanime, guarito.

E mi sembra impossibile: è finita.

 

Verrà il tempo che questi

trasalimenti scorderò; non è

una consolazione.

Ecco, verrebbe voglia di schedare tutto, per poi esporre puntualmente, come se il recensore dovesse esporre e spiegare il libro: cose che, è noto, non s’hanno da fare. Tuttavia bisogna dirne; dunque almeno un’altra nota saliente deve venire in luce, a mio avviso. Posto cioè che in un libro di un vivo sui (suoi, e non suoi) morti, viene in primo piano la memoria con i ricordi, come lo si fa qui? In primo luogo si tratta della famiglia: della madre (19 segg.) e dei fratelli (143-5). Il Lamento per la morte di Gina (99 sgg.), un altro vero poemetto, è invece per la zia-amica, e rievoca momenti di vita con lei, donna invero poco ordinaria:

 

Per me non c’è più la tua casa,

con l’albero piantato da nonno nel giardino,

dove arrivavo all’improvviso…

 

Dove studiavo, dove

leggevo, pensavo, sognavo;

dove mi rifugiavo da malato…

 

Volevi conversare fino a tardi,

volevi sapere tutto dei miei amori,

volevi raccontare i tuoi problemi…

 

Mi accompagnavi sempre nella tua automobilina,

cantando le canzoni della tua giovinezza…

 

Un giorno parlavamo non si più di cosa: io dissi,

usando una frase dei libri, che eri una persona speciale.

“Sono una povera donna” rispondesti, “non capisco quasi niente

delle cose difficili che dici!”

Invece tu capivi tutto…

eri grandissima con tutti i tuoi difetti…

 

Gioca anche un dettaglio di non poco conto per me che leggo – anch’io ho avuto esperienza di quella gran Milan, della città italiana così rappresentativa nel mondo. Inevitabile che le suggestioni offerte dall’autore interagiscano con mie rappresentazioni.

Questo, ancora, per non andare a tutti i momenti, alle città presenti: Pavia, Agropoli, Genova –  Salerno e luoghi intorno; … Ma basterà fermarsi a Milano (almeno quattro componimenti recano il nome nel titolo; ma a volte si avverte la città senza che essa venga menzionata).

 

Anche Milano si sveglia a quest’ora

(la Milano com’era o com’è ora?)…

Nelle  sere d’estate si sostava

sulle panchine verdi, sotto gli alberi. (47 sgg.);

 

la già citata Mattino milanese, che racconta degli amori della Rina; e Ricerca di senso a Milano, alla vigilia di un intervento chirurgico sostenuto dalla madre:

 

Tutto ciò non ha senso:

sempre qualcuno muore, una altro aggrava.

… mia madre è un po’ nervosa…

“A Milano si vive e si lavora

molto, ma poco si prega, perciò

quest’abbazia alle porte di Milano,

nella pianura pallida infinita”… (98).

 

Ovunque,  la presenza, l’avvertimento del tempo. Non si contano poesie e versi relativi al tema, valga per tutti Ritorno (112-3) –  si può davvero tornare? Oppure Due modi…, (129-31). Tutti traducono il topos, declinando alcune tra le modalità della esperienza del tempo e della morte nel composto modo dell’autore.

Forse giova ripetere che, dall’antichità a oggi, la morte come elemento di quell’esserci, l’uomo, che si pone la domanda sul senso dell’esistenza, viene in primo piano. Basti pensare all’essere-per-la-morte di M. Heidegger. Tale modo di pensare, a prescindere dal più piatto senso comune che non vuole se ne parli, è appunto oggi senso comune – ma filosofico. Ovvio che, a seconda dello spessore culturale della persona, ci si ponga la questione in modi molto diversi.

Vale come un invito a leggere questo libro di caducità, ma anche di vita. Infatti Dainotti, infine, capovolge esattamente l’assunto: se è vero che, essendo nati, si deve morire, tuttavia dobbiamo essere ben vivi, dal momento che ne possiamo parlare. È  quello di cui il poeta dice, mostrando infine la vita stessa: solo un vivo può dire della morte – ma, così facendo, dice della vita. Dainotti lo fa senza nascondimenti o infingimenti, in un modo sempre guidato da un gusto raffinato della parola e insieme diretto, a volte spietato.  Moltissime cose le scoprirà chi legge. Un punto di vista certamente molto singolare, originale, come si dice, ma vero.