La Voce e la Vita della Chiesa: ero carcerato e siete venuti a trovarmi

La Voce e la Vita della Chiesa: ero carcerato e siete venuti a trovarmi

Diac. Francesco Giglio

Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato,  nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.  Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?  Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito?  E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?  Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.”(Mt 25,35-40)

Chi non ha fatto l’esperienza di entrare in un carcere, non potrà mai capire cosa significa “essere carcerato”. Questo termine significa “non essere più libero di andare dove, quando e con chi si vuole”. Una volta superato i vari sbarramenti ci si ritrova in un luogo di sofferenza. L’incontro con questi fratelli e sorelle segna il momento in cui in ognuno di loro traspare il volto di “Gesù sofferente”, di “Gesù carcerato”. “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.  A ben guardare in quei volti, spesso solcati dalle lacrime e segnati dalla durezza della vita, possiamo scoprire,  se siamo animati e spinti dall’amore fraterno, la gioia per avere incontrato chi non li giudica ma chi li ama di un amore incondizionato. Quello stesso amore di Dio infinitamente misericordioso, che odia il peccato ma che ama il peccatore. Solo così possiamo far scomparire le sbarre, i pregiudizi e le condizioni sociali. Ai nostri occhi allora scompaiono buoni e cattivi, cristiani e no, perché stiamo incontrando solo fratelli e sorelle, figli di quell’unico Dio che ama immensamente i suoi figli  fatti a sua immagine e somiglianza. Solo così, trovandoci in quel luogo di assenza di libertà, gli uni accanto agli altri, possiamo abbattere quelle barriere che la stupidità umana ha creato. Prendersi cura di loro e dei loro familiari, è il servizio che i discepoli del Signore devono svolgere a loro favore, perché “sono i più poveri tra i poveri”. Nella vita si deve sempre cercare ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. Spesso si scopre che molti considerano questi nostri fratelli e sorelle solo dei malviventi o dei delinquenti. A noi non spetta giudicare ma solo sforzarci di vedere in ciascuno di loro il volto di Gesù crocifisso e abbandonato. A noi compete solo seminare a piene mani il seme del Vangelo, senza aspettarci nulla in cambio. Come singoli e come comunità di credenti abbiamo il dovere di essere accanto a loro e di pregare per loro con l’unico scopo di trovare sempre le parole giuste per annunciare che Gesù è venuto nel mondo per salvarci, al di là delle azioni compiute nella nostra vita terrena. L’evangelista S. Luca nel suo vangelo (10,25-37) scrive:” In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». A questo punto Gesù racconta la parabola del Buon Samaritano. Con la sua domanda il dottore della legge pensava di far cadere in contraddizione Gesù, ma alla fine fu lui che entrò in crisi. Il racconto di Gesù è imbarazzante perché, dopo averlo ascoltato, nessuno di noi può rimanere indifferente. Questa, che è una delle parabole più famose del Nuovo Testamento, ci presenta la figura di una persona generosa pronta a fornire aiuto a chi è nel bisogno.

Il buon samaritano nel soccorrere il malcapitato si china su di lui, gli rende la dignità, lo raccoglie tra le sue braccia, lo guarda, lo soccorre, si fa suo prossimo, si prende cura di lui rendendolo soggetto di compassione. L’uomo della parabola è un anonimo. Di lui non conosciamo nulla, né la nazionalità, né la condizione sociale, né l’appartenenza religiosa. Sappiamo solo che, mentre percorreva la strada che da Gerusalemme scende verso Gerico, viene assalito da banditi che lo depredano, lo picchiano e lo lasciano mezzo morto sul ciglio della strada. Il racconto è talmente attuale da sembrare quasi un fatto quotidiano che capita nelle nostre città, quando malviventi borseggiano, strattonano, malmenano  e lasciano le persone aggradite a terra sulla strada. Gli altri attori di questo racconto, che passano oltre senza fermarsi, rappresentano tanti di noi che vengono meno a questo amore fraterno non per odio o cattiveria ma per indifferenza. La misericordia è il sentimento che ci fa condividere la sofferenza di chi vive nel bisogno. Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1 Gv 4,20-21). Tutti coloro che per vari motivi sono ritenuti carcerati, sono anche loro il nostro “prossimo” da amare, non a chiacchiere ma con i fatti non commisurati sulle nostre voglie, sui nostri umori del momento, ma sulle loro necessità. Sono essi persone a cui dobbiamo prestare, con tutto il nostro cuore ed il nostro amore,  disponibilità ed attenzione.

La Chiesa nella persona del cappellano e dei volontari si rende presente nelle carceri e attuando la” Pastorale carceraria” si sforza di far comprendere che il “prossimo” non è colui al quale devo o posso fare del bene, bensì “colui che fa del bene a quanti si dedicano a questo servizio” . È questo il vero modo di far presente che il “primato della carità” consente anche a noi di capovolgere le situazioni rendendoci disponibili ai bisogni di chi ha fame, ha sete, è ammalato, è povero, è solo ed abbandonato, è profugo, è carcerato. Chi sa quante volte anche noi abbiamo cercato persone che ci aiutassero a superare momenti di difficoltà e siamo rimasti soli e delusi. La presenza di questi testimoni e samaritani nelle strutture carcerarie serve a far passare la certezza che Gesù, per loro tramite e in nome della Chiesa , continua a ripetere a coloro che vivono nei luoghi di detenzione “Io vengo a soffrire con te, vengo a condividere la tua condizione, vengo a portare la croce con te, e a noi che ci consideriamo “liberi”, ci chiede «Va’ e anche tu fa’ così»”. La Chiesa che è in Salerno-Campagna-Acerno in unione con tutte le Chiese della Regione Campania, indice per il 18 febbraio, prima domenica di Quaresima, una Giornata di Preghiera per i nostri fratelli e sorelle in carcere e per tutti gli operatori penitenziari, esortandoci a passare dell’indifferenza alla cura. Papa Francesco a proposito dei detenuti così si è espresso: “Per un detenuto, scontare la pena può diventare occasione per fare esperienza del volto misericordioso di Dio, e così cominciare una vita nuova. E la comunità cristiana è provocata a uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza, e spezzare con loro il pane della Parola di Dio”.

Sull’esempio del “Buon Samaritano” della parabola che: “ Lo vide e ne ebbe compassione “ anche noi siamo chiamati a passare, dall’indifferenza, alla vicinanza e alla cura amorevole.