Verbi Swahili: KUFUNDISHA insegnare

Verbi Swahili: KUFUNDISHA insegnare

Padre Oliviero Ferro

Anch’io, andando in Africa, prima di insegnare, sono diventato un “mwanafunzi” (studente). Ho dovuto mettermi, insieme ad altri, nella nostra casa regionale di Bukavu (RDC), ad imparare la lingua locale: il kiswahili. Non è una lingua difficile da imparare, ma, come per ogni cosa, bisogna avere la voglia di imparare, quindi mettersi a studiare, fare i compiti, conversazione e non avere paura di sbagliare. Dopo i tre mese, trascorsi con il “mwalimu”(maestro), siamo partiti per le varie destinazioni. Io sono stato accompagnato a Baraka (scendendo da Bukavu, zona del lago Kivu, oltre i 1200 metri, fino a Baraka (sui 900 metri), sulle sponde del lago Tanganika (lungo 650 km, largo 40 e profondo 1500 m.). Era il luogo dove nel 1850 o giù di lì, il mercante arabo Tippo Tip e altri radunavano gli schiavi e altre mercanzie, depredate nei vari villaggi per poi attraversare il lago, finire in Tanzania e da lì in Arabia). E poi ho scoperto che “Baraka” vuol dire “benedizione”. In ogni caso, la missione è stata benedetta durante la rivoluzione del 1964 e 1967 con l’uccisione dei missionari. Ma torniamo, ancora una volta, al “mwanafunzi”. Dopo il minicorso di swahili, ora bisognava cominciare a mettere in pratica quello che avevo imparato. E così ho cominciato a scrivere le prediche (come avevo fatto a Parigi, durante il corso di francese). La facevo leggere al parroco e poi, domenica dopo domenica, cominciavo il mio servizio di “mwalimu” della parola, cioè iniziavo a “kufundisha” (insegnare”). Mi ricordo sempre la prima volta, quando mi sono presentato, dicendo chi ero, da dove venivo, cosa ero venuto a fare e chiedevo il loro aiuto per sentirmi bene insieme con loro. Un po’ di paura nello sbagliare qualche parola, ma alla fine me la sono cavata. Ma il corso pratico continuava ogni giorni e i miei maestri erano i bambini che si facevano delle risate quando sbagliavo, ma che avevano anche la pazienza di correggermi. E così, piano piano, giorno dopo giorno,acquistavo sicurezza. Soprattutto nelle visite alle “shirike” (piccole comunità di base (sia in terraferma, che lungo i paesi del lago), diventava semplice dialogare con la gente. Poi, con l’aiuto di qualche persona saggia, sono entrato più in profondità nella cultura, nei valori di questi popoli (sia in Congo come in Camerun). Anche i gesti (il salutare, l’ascoltare, il dare tempo a ogni persona erano dei “laboratori” pratici di lingua). Per farla breve, mi sono sentito a casa mia e ho imparato molto ed è entrato nella mia vita per sempre.