Cilento: spreco di risorse umane da arginare

Giuseppe Lembo

Nel Cilento c’è, purtroppo e sempre più, un tragico spreco di risorse umane; quelle più dinamiche e professionalizzate, ossia i cervelli, pensanti e creativi, dopo lunghi anni di formazione, vedendosi rifiutati dal territorio, se ne vanno, cercando altrove percorsi di vita possibile per quel futuro che dovrebbe altrettanto essere possibile sui territori in cui si è nati. Ma, purtroppo, non è così; anzi è sempre meno così. A rimanere sui territori cilentani di appartenenza per nascita, sono sempre più le risorse residuali e rassegnate a vivere senza speranza e senza attese di cambiamenti possibili, non sapendo né volendo investire niente delle proprie risorse umane di cui preferiscono svuotarsi, non tenendone conto. E così, il Cilento sempre più umanamente depauperato con la sua popolazione fortemente invecchiata ed indifferente al futuro, vive sui territori cilentani continuando ad abusare ed a poco opportunamente consumare in modo sbagliato suoli ai soli fini residenziali, sottraendoli alla loro naturale destinazione d’uso agricolo; così facendo, va purtroppo, perdendo le sue buone caratteristiche di Terra da coltivare, trasformata com’è in altro e modificata o meglio alterata nel suo insieme ambientale poco opportunamente appesantito da case, non sempre utili e necessarie e quindi in sé, un grave ed inutile peso per i territori su cui sono state costruite. Oltre ai mali territoriali veramente tanti con frane e smottamenti che erodono le terre coltivate, con la viabilità sempre più precaria e difficile da percorrere per la sua incerta e precaria sicurezza di chi è costretto a percorrerle, c’è, tra l’altro, una crescente riduzione delle opportunità di vita, purtroppo, sempre più precaria e difficile da vivere in tante realtà cilentane antropicamente depauperate, con una popolazione fortemente invecchiata ed indifferente a tutto, sentendosi ormai e sempre più, un ingombrante peso umano, assolutamente inutile, in quanto non produttivo e da mantenere in vita impegnando risorse sempre meno disponibili. C’è sui territori cilentani senz’anima, soprattutto quelli collinari, un falso buonismo umano; un buonismo di sola facciata che ha in sé una componente di vita funzionale a fottere il prossimo che, da rassegnato e senza speranza, in silenzio subisce tutto, non avendo la forza e la volontà umana di agire e reagire, facendo capire a chi di dovere, il “ci sono anch’io”, nel ruolo di cittadino di questo territorio che “lo vivo e mi appartiene”. Se nel Cilento si continua così, sarà veramente la fine. Purtroppo, si va tristemente abbandonando la qualità della vita che si va abbassando; chi se ne deve accorgere, fa finta di niente, ad un punto tale, da rendere difficile non solo vivere, ma anche semplicemente sopravvivere. C’è, nell’umanità cilentana, tanta profonda solitudine; c’è tanta diffusa sofferenza; c’è, tra l’altro, tanta disumana rassegnazione in quelli che ancora giovani, decidendo di restare, non chiedono né si aspettano niente dalla vita che, tradendo tutto e tutti, diventa sempre più, una vita negata. Il pensiero dominante è quello dell’indifferenza; di un’indifferenza disumanamente diffusa.  Nella nostra società cilentana, abbiamo un orizzonte di vita veramente basso. Il sistema Cilento si rigenera nella sua crisi di sempre; un sistema a cui i cilentani non credono, in quanto non credono, tra l’altro, nelle istituzioni, da cui sono governati. Anche tantissimi cilentani fanno, purtroppo, parte di quel 70% di italiani che si sentono traditi ed abbandonati a se stessi; che si sentono tragicamente parte di un teatrino-farsa che spettacolarizza il falso cilentano, senza pensare di cambiarlo, ridando necessariamente vita ad un mondo che ormai sta morendo in senso fisico-territoriale e soprattutto in senso antropico-sociale. Sta ormai morendo nell’abbandonata solitudine cilentana dove sono in pochi e sempre meno, a viverci, in condizioni crescenti di grave disagio e di disumane difficoltà di vita. Sta morendo nel suo bel paesaggio e nella bellezza di un territorio terrazzato del Parco, sempre più abbandonato alla furia devastante dei cinghiali che ormai non ne permettono la coltivazione. Ma la morte che fa più male è quella antropica; una morte quasi violenta e lontana da generazioni sradicate, costrette a cercarsi altrove una nuova vita. Una morte che cancella tutto di tutto, cancellando, tra l’altro, la memoria di quel che si è stati, nel tempo, prima della nascita del Parco, fonte di ricordi e di testimonianze recuperate da genius loci, attenti al valore etico-umano-sociale di quello che erano stati ed erano i loro territori, un tempo territori dell’anima, oggi senz’anima, pronti ad essere dimenticati, cancellando così la memoria di un passato ormai scomparso e che, con assoluta indifferenza, va cancellando anche la genialità di chi ne aveva raccolto i ricordi e raccontato le tante espressioni di umanità ormai scomparse, comprese le interessanti umanità dei vecchi mestieri, un patrimonio di ingegno assolutamente da conservare, perché necessario al futuro.