Tragedie, denunce sociali e Gabibbo. Quando la TV sta al limite

Amedeo Tesauro

La morte di Domenico Marcantonio, lo studente di Padova morto cadendo dal quinto piano di un albergo di Milano, è solo l’ultimo caso balzato agli onori della cronaca. Un caso misterioso dai contorni non chiariti, il caso perfetto per alimentare i dibattiti nella televisione del pomeriggio e inondare l’etere coi suoi dettagli. Una tragedia simile presenta infatti troppi elementi di facile narratività per sperare che i media, televisione su tutti, non insista sul caso: il mistero, tra suicidio, omicidio o incidente; le circostanze misteriose nel mezzo di una notte brava, una premessa quasi cinematografica; la reticenza dei compagni e l’emergere man mano di dettagli, in attesa delle analisi sul corpo; c’è perfino lo squarcio sociale, il mondo giovanile fatto di goliardia e alcol nel più classico dei viaggi tra neo-adulti. Davvero troppo per ignorare il caso, e difatti Chi l’ha visto? ha immediatamente aperto le danze degli scoop, mostrando la schermata di un messaggio esclusivo inviato da un testimone oculare anonimo a un suo conoscente, messaggio nel quale viene descritto il tragico evento. Gli inquirenti hanno immediatamente definito inattendibile il messaggino e sul programma di Rai 3 si è abbattuta la bufera, inevitabile del resto. C’è da scommettere che sarà soltanto il primo di diversi colpi di scena e scoop, nel pieno rispetto dell’avvincente copione. Lamentarsi della cronaca nera e del peso che ricopre nei palinsesti televisivi è facile, un tiro al bersaglio che la critica realizza da tempo e a cui gli interessati ribattono trincerandosi dietro il velo del giornalismo investigativo. Eppure bisognerebbe distinguere tra giornalismo investigativo e la messa in scena finalizzata al pathos, dove l’enfasi vince sul racconto asciutto e l’ipotesi possibile prevale sul dato fattuale attualmente a disposizione. Nell’ultimo episodio di TV Talk, programma di analisi televisiva di Rai 3, il fenomeno “cronaca nera” è stato curiosamente intrecciato con un’altra vicenda televisiva delle ultime settimane, il licenziamento di Fabio e Mingo dal TG satirico Striscia la notizia, motivato da false inchieste presentate dai due inviati. Il nodo di congiunzione è l’informazione e i suoi limiti, e seppur il termine infotainment non sia stato mai pronunciato è esattamente quel genere a essere messo in discussione. Da un lato i programmi di informazione che si fanno spettacolo: i contenitori pomeridiani sia Rai sia Mediaset ne sono un esempio perfetto, ma anche il giornalismo spettacolarizzato dei programmi di cronaca nera ci casca dentro. Dall’altro lo spettacolo che si tinge di informazione: Striscia e Le Iene. L’informazione è già di suo un terreno complesso, quando si mischia allo spettacolo il rischio di perdere di vista la materia di base è forte, cavalcare l’onda è facile e redditizio: nello stesso anno in cui Le Iene vinsero il prestigioso premio giornalistico Ilaria Alpi con un servizio su una nuova droga, la trasmissione portò avanti una campagna mediatica sul caso Stamina che regalò ascolti record, salvo poi dover chiedere maldestramente scusa una volta venuta a galla la verità sui test clinici di Vannoni. Il rischio sta sempre lì, mistificare l’informazione per il facile ascolto, speculare sulla tragedia per fare il pieno di spettatori, interferendo per giunta con tutto il peso che i media possono avere. D’altro canto il pubblico è sovrano, l’arresto di Bossetti o l’ultima su Padre Graziano piacciono e la gente ne vuole di più, gli ascolti volano. Il velo del giornalismo continuerà a far da scudo alle critiche ancora a lungo.