La stortura del legno storto di Kant

Fulvio Sguerso

Ormai la “manomissione delle parole” correnti nel discorso pubblico e persino di quelle dei classici del pensiero e quindi anche dei loro  concetti, da parte di monomissori patentati e impavidi  che, approfittando della scarsa dimestichezza dello spettatore televisivo e del lettore medio italico con i testi fondamentali nella storia dell’etica, non si peritano di manomettere e stravolgere  le tesi, appunto, dei classici quando si tratta di difendere la libertà “privata” del Principe, è prassi consolidata (e, a quanto pare, efficace) e non dovrebbe nemmeno più scandalizzare quei “puritani” che perseverano nel chiamare pane il pane, vino il vino, abuso l’abuso, mercimonio il mercimonio, sfruttamento lo sfruttamento, impunità l’impunità, meretricio il meretricio, ruffianeria la ruffianeria, servilismo il servilismo, piaggeria la piaggeria, teppismo culturale il teppismo culturale, e insomma: vizio il vizio e virtù la virtù. Il ben informato lettore avrà già intuito che mi riferisco all’uso improprio e strumentale della citazione che ha fatto  Giuliano Ferrara, al teatro Dal Verme, al Tg1, a Matrix, su Il Foglio, su Il giornale e su Panorama del legno storto dell’umanità “dal quale non può uscire nulla di interamente diritto” di cui parlava Immanuel Kant, nel  testo Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del 1784. Nella premessa a quest’opera – uscita un anno prima della Fondazione della metafisica dei costumi, dove il principio della moralità non è più fondato sul Sommo Bene degli scolastici o sul sentimento o sulla “natura umana” , o in vista dei fini da raggiungere, ma sul concetto del dovere per il dovere – Kant chiarisce ai lettori che non è possibile trattare della storia e dell’agire pratico degli esseri umani senza tener conto della libertà del volere, e quindi della imprevedibilità degli avvenimenti storici, pur nel quadro predeterminato dalle leggi naturali e dalla storia passata, e questo perché “gli uomini, nei loro sforzi, non si comportano semplicemente in modo istintivo e prestabilito come le api o i castori”, e spesso nemmeno in modo ragionevole e civile, ma anzi, malgrado qualche lampo di razionalità, in modo assurdo e stupidamente infantile, come dimostrano la continue guerre e lotte fratricide. Quindi il problema è quello di pervenire all’attuazione di una società civile che faccia valere universalmente il diritto, dal momento che l’uomo “abusa della sua libertà in rapporto ai suoi simili, e se in pari tempo, in quanto essere razionale, vuole una legge che ponga limiti alla libertà di tutti, il suo egoistico istinto animale lo induce, quando può, ad eccettuarne sé stesso.” Niente di nuovo sotto il sole, nevvero? Ma seguiamo il ragionamento di Kant: proprio perché gli uomini hanno la tendenza a curarsi dei propri interessi e a trascurare l’interesse generale, hanno bisogno di un potere indiscusso che li obblighi ad obbedire a una legge universale; ma qui sorge una difficoltà: dal momento che questo potere (o comando) non proviene a sua volta da nessun altro luogo che dalla specie umana, e dunque da un uomo al governo che è “a sua volta un essere animale che ha bisogno di un padrone” ne segue che gli uomini, da soli, non sanno regolarsi ed autolimitarsi, tant’è vero che l’organo politico al comando, sia esso formato da una o da più persone, “abuserà sempre della sua libertà, se non avrà sopra di sé chi eserciti su di essa il potere secondo le leggi.” Ecco perché la sovranità dovrebbe spettare alla legge e non al sovrano, o capo supremo, che è pur sempre un uomo in conflitto con (o dominato da) i suoi istinti egoistici (o dai suoi interessi privati); e nondimeno, osserva sconsolatamente Kant nel 1784, nemmeno le leggi riescono a limitare gli istinti animali ed egoistici del capo supremo, e non ci riescono perché non c’è legge in grado di raddrizzare il legno storto dell’umanità di cui anche il capo supremo fa parte. “Di qui – è la citazione esatta – nasce il problema più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile: da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto.” Ora, solo distorcendo il senso della metafora del legno storto si può dedurre, come fa l’ateo devoto – e, adesso, anche “neokantiano” –  Ferrara, che il legno storto sia preferibile al legno dritto, come dire che i vizi, e, nella fattispecie, i vizi dei potenti, sono  preferibili alle virtù, e anche che i “puritani” essendo anch’essi fatti di legno storto, non hanno niente da insegnare sul legno dritto, e farebbero meglio a tacere o a parlare dei vizi che sicuramente nutrono in segreto. Questa è la morale e la pedagogia di Giuliano Ferrara (e dei suoi smutandati), certo non quella di Immanuel Kant.

 

4 pensieri su “La stortura del legno storto di Kant

  1. …e da un tronco vecchio e marcio cosa può uscire ? solo formiche , vermi e licheni, immagino!Per questo qualcuno può anche pensare che esso sia… pieno di vita!

  2. Ferrara, come già ha detto qualcuno, avrà confuso Kant con Cetto La Qualunque.

  3. La sua filosofia, caro Dottor Fulvio Sguerso è paragonabile a quella del grande Voltaire.
    In vita non ho avuto modo di leggere le teorie essenziali di questo grande filosofo Kant Immannuel nato in Germania nel 1724., ma come Lei ne descrive la sua teoria filosofica fa ben capire che ogni essere umano , fosse anche il padrone e comandante del mondo, non potrà mai essere una persona perfetta senza farsi coinvolgere dall’istinto innato dell’imperfezione che è il debole dell’umanità. Allora si deve assolutamente credere a qualsivoglia religione onde non essere coinvolti negli istinti animali, specie da chi ha il potere di comandare le masse. Allora bisognerebbe studiare le filosofie religiosi per frenare al massimo le barbarie e le animalesche aggressioni verso i più deboli. Mi scuso per l’intervento poco adatto alla mia misera cultura, Un abbraccio, Alfredo

  4. Gentile signor Alfredo, quanto alla moralità, Kant non distingue tra uomini colti o analfabeti, tra filosofi o uomini comuni, tra potenti o sudditi: per lui la legge morale è iscritta nella coscienza di ogni uomo; e tuttavia è anche vero che non tutti gli uomini, pur conoscendola, la osservano e la mettono in pratica. Perché? Perché la volontà dell’uomo è libera ma non santa (santa è solo la volontà di Dio), e può succedere che le inclinazioni naturali siano, in alcuni, più forti degli imperativi “categorici”, cioè non condizionati, come invece sono quelli “ipotetici”, da un qualche interesse o scopo, anche legittimo, ma pur sempre relativo e particolare, non universale. Il “tu devi” kantiano è indipendente da qualsiasi tornaconto, e la stessa fede in Dio non dovrebbe avere niente a che vedere con premi o con castighi ma solo con la possibilità di far coincidere la felicità con la virtù, e la vita eterna è postulata in quanto la vita terrena non basta al compito di far coincidere perfettamente la nostra volontà con la legge universale e necessaria della morale. Eh sì, la morale kantiana è piuttosto “categorica” ed esigente e non si addice ai libertini!
    Grazie per il commento (ma lasciamo Voltaire ai volterriani).
    Con amicizia e stima.

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