Salerno: I volti di Maria – Immagini di una devozione filiale

Salerno: I volti di Maria – Immagini di una devozione filiale

Don Luigi Aversa

Maggio è, per tradizione, il mese dedicato a Maria: un tempo in cui si rinsalda il vincolo di figliolanza che lega ogni fedele a Colei che, donandosi a Dio, si è offerta a ciascuno di noi con cuore di madre.

È allora naturale riservare questo numero all’espressione figurativa di questo “laccio” d’amore che ci annoda a Maria, come una dolce catena fatta di quelle rose oranti che proprio in questo mese, con uno slancio di totale affidamento, le offriamo con rinnovato ardore.

Non è casuale il riferimento al Rosario, dal momento che è proprio attraverso questa preghiera che, nel tempo, si è esplicitato con maggiore evidenza la devozione a Maria, divulgata anche attraverso un ricco corredo di immagini che celebrano la Madonna come la Vergine del Rosario.

 «Rosa delle rose, Fiore dei fiori… […], Rosa ricca di grazia e di bellezza, / fiore pieno di grazia e d’allegrezza…»[1].

Così nel XIII secolo, Alfonso X il Savio (re di Castiglia e Léon) celebrava Maria, sostenendo il portato floreale già consacrato dalla tradizione a vantaggio di una corrispondenza simbolica che riconosce alla Madonna il primato di fiore più bello del giardino spirituale.

Senza addentrarci troppo in una disanima che richiederebbe un più circostanziato ambito di riflessione, ricordiamo che da tempo immemore la rosa è stata decantata come la regina dei fiori, associata alle divinità femminili più radiose dell’Olimpo pagano, a cominciare da Afrodite: una relazione che ha caricato la rosa di significati positivi, rimandando ai concetti di bellezza, di grazia, di maestà, di perfezione e di incorruttibilità, esaltati anche per via poetica. Celebre la scelta iconografica di Dante che nel XXXI Canto del Paradiso per restituire la distribuzione della «milizia santa» nel cielo fa riferimento alla “forma” di una «candida rosa» (vv. 1-3)[2], il cui centro è occupato proprio da Maria.

Furono i Padri della Chiesa ad aver favorito la traslazione in senso teologico del rimando floreale, esaltando Maria come Rosa sine spine, a ribadirne la concezione immacolata, in un confronto con Eva: se questa «fu la spina, che ferì mortalmente il mondo, Maria ne fu la rosa salutare»[3].

Maria diventa così la Rosa mistica ‒ la «rosa, in che ‘l  verbo divino / carne si fece»[4] ‒, celebrata anche attraverso la formula iconografica, di matrice tardogotica, della “Madonna del roseto” che, sviluppata nelle rivisitazioni quattrocentesche (soprattutto di ambito nordico)[5], ha posto le basi per la definizione di un’interpretazione più “intima”, in cui il motivo della rosa interviene a mediare la relazione tra la Madre e il Figlio, secondo una soluzione che troverà continuità nel corso del XVII secolo, anche in ambito napoletano.

Una prova in tale senso ci viene offerta dalla Madonna della rosa di Massimo Stanzione, conservata presso il Museo Diocesano di Salerno (fig. 1), tanto più interessante dal momento che permette di confermare una preferenza tematica, attestata anche dalla versione per Palazzo Corsini.

Se nella versione romana la rosa si caratterizza per il delicato sfumato bianco-rosato dei petali, a simboleggiare la verginità e la carità di Maria – sulla scorta delle indicazioni di san Bernardo («Maria è stata una rosa, bianca per la sua verginità, vermiglia per la sua carità»)[1] –, in quella salernitana la scelta del colore rosso diventa espressione della volontà di perfezionare il richiamo simbolico a favore di una valorizzazione del legame tra la Madonna e il Bambino nel segno della Passione, in linea, ancora una volta, con le riflessioni di san Bernardo: «Contemplate questa divina rosa, in cui la passione e l’amore si disputano per darle un vivo splendore, e il suo purpureo colore. Questa gli viene senza dubbio dal sangue, onde l’invermigliarono le sante piaghe del Salvatore»[2]; in questa prospettiva trova ragione la scelta di assegnare la rosa al piccolo Gesù che l’ostenta, reggendola nel suo pugnetto. Da osservare è anche l’insistenza cromatica, evidenziata, oltreché nella veste rossa di Maria, dallo scarlatto delle sue labbra, valorizzato dal confronto con il candore dell’incarnato.

La Madre accosta delicatamente le sue labbra al viso del Figlio, in un atteggiamento affettuoso che consente di verificare il perdurare di un’altra tipologia iconografica: quella della “Madonna della Tenerezza”, già documentata nella raccolta museale diocesana dalla tavola attribuita a Giovanni da Gaeta .

Proveniente dalla chiesa del Monastero di San Michele a Salerno, la tempera si ricollega a una tradizione figurativa di matrice orientale, sviluppata a supporto di un’esaltazione del volto materno della Madonna, che diventa tramite dell’amore misericordioso di Dio[1].

Uno dei tanti volti attraverso cui l’arte ha voluto restituirci il ritratto di Maria, figura artistica per eccellenza, già soggetto privilegiato del talento pittorico di san Luca: «il primo, ch’avesse quest’onore di dipingere il volto della modestia, della verginità, dell’umiltà, della carità, d’ogni virtù perfettissima di Maria»[2].

Viene spontaneo interrogarsi su quali tratti è stato possibile definire il volto della Madonna.

Un tentativo di risposta – caratterizzata proprio in funzione di guida iconografica per gli artisti – venne dal cardinale Federico Borromeo:

[1] Tant’è che la Madonna della tenerezza è nota anche con la formula orientale di “Eleousa” che significa “la misericordiosa”.

[2] Panegirici del Padre Bartolomeo Donati della Compagnia di Gesù, Tomo II, Venezia 1733, p. 301. È dalla tradizione orientale del VI secolo che deriva l’idea di san Luca quale primo ritrattista della Madonna, fissata nell’immagine archetipa della Vergine Odigítria, “colei che indica la via [della Salvezza]”, custodita a Costantinopoli nel monastero Odigon.

[1] San Bernardino cit. in, Il Giornale… cit., p. 36.

[2] Ivi, p. 35.

 

[1] Nella monodia n.10, Rosa Das Rosas, dei Cántigas de Santa Maria. Cfr. S. Parkinson, Alfonso X, the Learned “Cantigas de Santa Maria” An Anthology, Cambridge 2015, p. 52. Per un approfondimento si veda anche La música de las Cantigas de Santa María del Rey Alfonso el Sabio, Barcellona 1958.

[2] Già negli Atti di Santa Perpetua, i martiri sono accolti nel «frutteto celeste sotto un cespuglio di rose». Ancora, san Venanzio Fortunato scrive nella sua poesia Le Jardin de la Reine Ultrogothe: «Qui la primavera abbagliante cresce un prato verde e diffonde i profumi delle rose del paradiso».

[3] San Bernardino cit. in, Il Giornale Dantesco, Firenze 1908, p. 36.

[4] Dante, Paradiso, XXIII, 73-74.

[5] Tra gli esempi più significativi ricordiamo le versioni di Stefan Locher del 1450 ca. (Colonia, Wallraf-Richartz Museum) e di Martin Schongauer del 1473 (Colmar, chiesa dei Domenicani). Sul versante italiano, un significativo precedente è dato dall’esito di Stefano da Verona (Verona, Museo di Castelvecchio), in cui il roseto interviene a caratterizzare il modello di tradizione biblica dell’hortus conclusus, simbolo della verginità mariana. Da ricordare è anche l’interpretazione offerta da Domenico Veneziano nella tempera oggi a Bucarest (Museo Nazionale d’Arte della Romania), in cui la differenziazione cromatica delle rose è funzionale alla valorizzazione della purezza virginale della Madonna e alla prefigurazione della Passione di Cristo. La stessa soluzione connota la Madonna del roseto di Bernardino Luini, databile al 1510 e conservata presso la Pinacoteca di Brera.

[6] San Bernardino cit. in, Il Giornale… cit., p. 36.

[7] Ivi, p. 35.

[8] Tant’è che la Madonna della tenerezza è nota anche con la formula orientale di “Eleousa” che significa “la misericordiosa”.

[9] Panegirici del Padre Bartolomeo Donati della Compagnia di Gesù, Tomo II, Venezia 1733, p. 301. È dalla tradizione orientale del VI secolo che deriva l’idea di san Luca quale primo ritrattista della Madonna, fissata nell’immagine archetipa della Vergine Odigítria, “colei che indica la via [della Salvezza]”, custodita a Costantinopoli nel monastero Odigon.

E perché i pittori con più esattezza ritraggano al naturale l’immagine della Beata Vergine, proporrò l’esemplare che lo stesso Niceforo ci ha lasciato: «[…] In ogni cosa appariva onesta e grave… era di giusta statura… Per colorito tendeva a quello del frumento, capigliatura bionda, occhi penetranti con le pupille chiare e quasi del colore dell’oliva. Le sopracciglia incurvate e di un bel nero, il naso lunghetto, le labbra tonde e soffuse della soavità delle parole; la faccia non rotonda né acuta, ma alquanto allungata, parimenti le mani e le dita piuttosto lunghe»[1].

[1] F. Borromeo, De Pictura Sacra (1624), ed. cit. trad. di C. Castiglione, Sora 1932, p. 74.

 

Massimo Stanzione, Madonna della rosa, Roma, Palazzo Corsini

 

Giovanni da Gaeta (attr.), Madonna con Bambino, Salerno, Museo Diocesano

Si fissava così un canone iconografico, successivamente ratificato dal segretario del cardinale Vincenzo Orsini (papa Benedetto XIII), Pompeo Sarnelli, attraverso la lettera inviata da Napoli, il 5 maggio 1685, ad Angelo Solimena:

Ella [Maria]… […] [ha] le ciglia innarcate graziosamente nere; il naso alquanto lungo; le labbra ben formate…; la faccia non rotonda, né acuta, ma convenevolmente lunga; le mani e le dita pur lunghe, l’aspetto grave e modesto, senza alcuna sorta di fasto, o di affettazione, ma semplice ed umile. […] e per recare le molte parole in una, in tutte le sue cose si scorgeva una grazia celeste e divina[1].

La teorizzazione di un modello figurativo sarà determinante per le scelte condotte dagli artisti a favore di una valorizzazione del ritratto mariano, quale ci testimoniano la Madonna con il Bambino benedicente (fig. 4) e l’Addolorata con il Volto Santo (fig. 5), entrambe esposte nella Sala “Arte e Fede” del museo diocesano salernitano.

 

[1] P. Sarnelli, Lettere ecclesiastiche, Tomo I (Napoli 1686), ed. consultata, Venezia 1716, Lettera XXXVII.

[10] F. Borromeo, De Pictura Sacra (1624), ed. cit. trad. di C. Castiglione, Sora 1932, p. 74.

[11] P. Sarnelli, Lettere ecclesiastiche, Tomo I (Napoli 1686), ed. consultata, Venezia 1716, Lettera XXXVII.