Maria Valtorta e la luce angelica nel Getsemani

Maria Valtorta e la luce angelica nel Getsemani

don Marcello Stanzione

Maria Valtorta nacque a Caserta il 14 marzo 1897, figlia unica di un ufficiale di Cavalleria e di una insegnante di francese, entrambi lombardi. Crebbe e si formò in varie città del nord (Faenza, Milano, Voghera) mostrando un carattere forte, spiccate capacità umane e straordinarie doti spirituali. Completò i suoi studi nel prestigioso Collegio Bianconi di Monza. Durante la prima guerra mondiale fu infermiera “samaritana” nell’Ospedale Militare di Firenze, città in cui abitò a lungo e dove fu segnata dalle prove più dure, procurate dalla terribile mamma, che per due volte infranse il suo legittimo sogno d’amore, e da un sovversivo, che per strada le sferrò una bastonata alle reni. Si ritemprò, in parte, con una vacanza di due anni a Reggio Calabria, presso parenti facoltosi ed affezionati.  Nel 1924 si stabiliva con i genitori a Viareggio, dove fu impegnata in Parrocchia come delegata di cultura per le giovani di Azione Cattolica. Intanto le sue sofferenze aumentavano e la sua ascesi culminava in eroiche offerte di sè per amore a Dio e all’umanità. La sua vera missione, quella di scrittrice mistica, maturò e si svolse negli anni centrali della sua lunga infermità, che la costrinse a letto dal 1934 fino alla morte, avvenuta a Viareggio il 12 ottobre 1961.

Nel 1943, inferma da nove anni, Maria Valtorta aderì ad una richiesta del confessore e scrisse l’Autobiografia. Svelando il suo talento di scrittrice, riempì di getto sette quaderni per narrare senza reticenze la propria vita, umana fino alla passionalità, ascetica fino all’eroismo.

Subito dopo dava inizio ad una produzione letteraria prodigiosa. Stando seduta nel letto, Maria Valtorta scriveva di suo pugno su comuni quaderni, di getto, senza preparare schemi ne correggere. Spesso alternava la stesura degli episodi dell’opera maggiore con quella di altri argomenti, che avrebbero poi dato corpo alle opere minori.

L’epilogo
Finita quasi di scrivere l’opera maggiore, quella in dieci volumi dal titolo “L’Evangelo come mi è stato rivelato”, Maria Valtorta fu pressa dalla nostalgia del suo Signore, pensando di non doverlo più vedere. Ma Egli venne a consolarla con una promessa: “Io sempre verrò. E per te sola. E sarà ancora più dolce perchè sarò tutto per te…ti porterò più su, nelle pure sfere della pura contemplazione….D’ora in poi contemplerai soltanto… ti smemorerò del mondo nel mio amore”.
Era il 14 marzo 1947, giorno del suo 50° compleanno.
Già da alcuni anni, il 12 settembre 1944, Gesù le aveva predetto una morte estatica: “Come sarai felice quando ti accorgerai di essere nel mio mondo per sempre e d’esservi venuta, dal povero mondo, senza neppure essertene accorta, passando da una visione alla realtà, come un piccolo che sogna la mamma e che si sveglia con la mamma che lo stringe al cuore. Così Io farò con te”.
Sta di fatto che, a partire dal 1956, Maria iniziò a dare segni di un distacco psichico, che gradualmente diventava, negli anni successivi, incomunicabilità, dolce apatia, abbandono totale, ma che non fece mai smorzare sul suo viso la vivezza dello sguardo o alterare la serenità dell’espressione, senza peraltro far trapelare i dolori che ancora dovevano tormentarla.
Si spense nella mattina di giovedì 12 ottobre 1961, mentre un sacerdote le recitava la preghiera degli agonizzanti: “Parti, anima cristiana, da questo mondo”. Aveva 64 anni di età ed era a letto da 27 anni e mezzo.

Dodici anni dopo, il 2 luglio 1973, i resti mortali di Maria Valtorta, traslati dal Camposanto della Misericordia in Viareggio, furono tumulati a Firenze, in una cappella nel Chiostro grande della basilica della Ss. Annunziata.
La sua tomba a Firenze e la casa in cui visse in Viareggio sono meta di visitatori devoti e grati :i lettori delle sue opere, sparsi nel mondo. Ecco la visione della Valtorta riguardo l’agonia di Gesù nel Getsemani e di questa luce angelica che lo consola:
Gesù dice ai discepoli di attenderlo nella piazzola erbosa, ma poi chiama Pietro, Giovanni e Giacomo come fosse pentito di inoltrarsi solo o temesse qualcosa; e si inoltra con essi inerpicandosi per la prima balza.
Qui giunto dice ai tre: “Attendetemi qui voi, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate. Il vostro Maestro è molto accasciato nello spirito…”. Calca molto sulla parola “molto” e dice le ultime due frasi con tono di profonda mestizia. Ha la voce come resa più profonda e afona da una pena interna. Una voce stanca. E triste.
Pietro, che ha preso la torcia da uno degli altri lasciati prima, risponde: “Stai tranquillo. Maestro. Vigileremo e pregheremo, Non hai che chiamarci che verremo”.
E Gesù li lascia. Cammina volgendo loro le spalle. Sale lentamente a testa china cercando il posto dove mettere i piedi al lume della luna che ora è più alta e chiara… Dopo pochi metri vi è un dislivello di qualche centimetro più alto di Gesù. Lì vi è anche un masso che sembra essere stato collocato lì o dalla natura stessa o dall’uomo per sorreggere la costicella.
Contro questo si ferma Gesù. Ha quasi sotto ai suoi piedi la chioma argentea di un ulivo… Gesù prega. Ritto in piedi contro il sasso, col volto levato al cielo e le braccia aperte a croce. La sua preghiera è intensa. Lo odo sospirare e sussurrare le parole con pressante anelito.
Poi si volge appoggiando le spalle al macigno e guarda… Oltre le chiome spettinate degli ulivi digradanti ai suoi piedi seguendo i dislivelli del luogo collinoso, si vede Gerusalemme. Tutta bianca nel chiaro di luna. Tutta calma, all’apparenza, tutta buona, tutta dormente. Gesù, con le braccia incrociate sul petto, la guarda intensamente. Sospira con maggiore affanno.
Poi si incammina di nuovo. Torna ai tre discepoli. Questi hanno acceso un focherello, forse per sentire meno la frescura notturna, forse per resistere meglio al sonno. Ma in realtà dormicchiano già. Le teste, specie quella di Pietro, ciondolano sul petto.
“Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e della vostra preghiera!”. I tre si scuotono e si sfregano gli occhi. “Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno”. E li lascia nuovamente tornando al suo posto.
Al lume della luna, che gli batte in voltò facendogli parere bianca anche la veste mentre si dirige verso il sentiero, vedo che ha un volto stanchissimo. Un volto martirizzato da un dolore interno. Sembra invecchiato. Lo sguardo non ha fulgori. La bocca cade con piega triste.
Torna al suo masso e si inginocchia con più intensa preghiera. Prega e medita. E nel meditare si abbatte. Lo vedo sussultare, lo odo gemere. Lo vedo che porta le mani congiunte oltre il capo e appoggia queste al masso e la fronte ai polsi e sta così, supplicando. Quando alza il volto, la luna, ora a perpendicolo su di Li mi fa vedere un volto lavato dal pianto.
Si alza. Fa qualche passo avanti e indietro mormorando parole che non afferro, sollevando gli occhi al cielo e le mani, riabbassando queste e quelli con sconforto. Soffre. Piange. È agitato.
Torna ai tre che dormono anche meglio di prima. Anche il fuocherello sonnecchia. “Ma dunque? Dormite ancora? Pregate. La carne non vi vinca. Non vinca la carne, in nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi”.
I tre si scusano. Lasciano le pose comode che avevano preso, cercano dei rametti, e per farlo si alzano e si sgranchiscono, ravvivano il fuoco. La vampa mostra un volto così torturato che avrebbe dovuto tener desto anche un moribondo. Ma i tre hanno sonno…
Gesù li guarda, scuote il capo. Toma via. Torna al suo masso. Prega da capo. Prima a mani levate e aperte a croce, poi in ginocchio come prima a mani congiunte. Poi tace. Pensa. E deve soffrire atrocemente perché ora singhiozza apertamente, accasciandosi sulle calcagna. E invoca il Padre… Con tanto affanno Sembra un bambino torturato che chiami l’unico che lo può salvare.

Ma si riprende e, dopo aver gemuto: “No, no. Troppo amaro è questo calice. Padre, allontanalo dal tuo Figlio”, si riprende e dice: “Però non ascoltare la mia voce. Padre, se essa chiede cosa contraria alla tua volontà. Non ricordarti che ti son Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta!”.
E dopo questa preghiera la marea di tutto il dolore del mondo si rovescia su Lui, lo preme, lo schiaccia, lo abbatte. Materialmente è una povera cosa curvata al suolo, col volto contro terra, sull’erba fresca, unica pietosa alla sua febbre: sembra uno che muoia. Spiritualmente è un’anima torturata, un pensiero esterrefatto, un cuore schiacciato dall’abbandono del Padre, dal suo rigore, dalla cognizione della tortura che l’aspetta. Da tante, tante cose.
Sta così lungamente. Quando una gran luce si mostra sul capo – non vedo altro che una luce candidissima – Gesù alza il capo. La luce lunare e quella angelica mi mostrano un viso rosso di sangue. Le lacrime fanno due righe bianche nella maschera rossa. Anche le mani sono rosse, le braccia che Egli alza verso la luce. Si leva il mantello rosso scuro e si asciuga con esso il volto, le mani, il collo, le braccia. Ma il sudore sanguigno continua. Ogni poro ha la sua goccia che si forma, cresce e cade. L’erba appare più scura là dove Egli ha tenuto il volto, tinta come è di sangue.

Gesù affanna come uno preso da malessere. Si pone seduto contro il masso. Si appoggia. Si abbandona, col capo chino in avanti, le braccia stese ai lati del corpo. La luce angelica è sopra di Lui. Poi scompare fondendosi al raggio lunare.
Gesù è da capo solo. Ma è più confortato. Si asciuga nuovamente, accuratamente, volto e mani nel mantello, che ripiega poi, mettendolo contro il masso e appoggiando su questo il capo e le mani in un’ultima preghiera.
Poi si alza e si avvia verso i discepoli lasciando il mantello là dove è. La sua tunica rosso pallido appare macchiata come fosse bagnata di un liquido scuro. Ma il volto ha ripreso il suo aspetto maestoso per quanto sia immensamente triste e pallido più del consueto.
I tre, comodamente sdraiati, dormono, tutti avvolti nei loro mantelli, presso il fuoco definitivamente morto. Gesù li scuote: “Alzatevi. Andiamo. Chi mi tradisce è vicino”.
(Tratto da “I quaderni del 1944” di Maria Valtorta pag.131 – Centro Editoriale Valtortiano)