Salerno: “L’Apocalisse e la Madre celeste” di Bruno Giustiniani, superbo tributo al tempo della pandemia

Rita Occidente Lupo

Bruno Giustiniani, per lunghi anni a capo del reparto di otorinolaringoiatria e chirurgia presso l’Azienda “San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona”, nonché chirurgo plastico-estetico, da ex Primario non depone le armi nel continuare a curare l’armonia della persona ed a sfaccettarla nella sua poliedricità. L’ampia sua collezione ad olio, che campeggia da coloratissimi depliants in gallerie d’arte nazionali, vanta sempre nuova linfa, affondando anche nel sacro cromìe contemporanee. Ultimata da qualche giorno un altro capolavoro, che s’impone non solo per dimensioni cm.190×280, ma per l’olio sapientemente stemperato con l’oro, conferendo regalità all’intera tela.

“L’Apocalisse e la Madre Celeste”,  vede nella parte centrale la Divinità trinitaria, coincidente con l’asse centrale del dipinto, incipit dell’universo. La Vergine, raffigurata non secondo stilemi classici e tradizionali, già dall’abbigliamento volutamente diverso dal bianco e dall’azzurro, propri dell’Immacolata, ma quasi porpora, per contrastare con l’azzurro del cosmo. In basso, sui due lati, diversi personaggi mistici, che hanno anche calcato il nostro tempo: Papa Giovanni XXIII, San Pio, San Moscati e Madre Teresa di Calcutta, di fronte a San Francesco di Paola, Papa Wojtyla e ad un fanciullo, simbolo dell’innocenza che cresce e può diventare santità. La tela s’impone per l’ampia tavolozza cromatica e per il buon possesso dimensionale dei singoli elementi: il figurativo diventa parlante, la staticità rimanda conati emotivi d’immediata fruizione.

Un alone soprannaturale domina la scena, nella quale assenti elementi funesti, disfattisti. Il volo di dodici gabbiani nell’azzurro, primigeni angeli, che volano intorno al mondo. La Madre, col suo diadema di sette stelle, intermediaria tra cielo e terra, protesa nella Sua dolcezza verso l’umanità caduca. L’escatologica visione del male volutamente non accentata, a vantaggio della catartica elevazione della creatura guardando al cielo. A quell’azzurro, che generosamente immerge il figurativo in un’atemporalità cosmogonica in cui il Fiat della creazione consente all’uomo di ogni tempo di calcare la terra, tra i rivoli delle insidie, sapendo che può essere sorretto nel suo errante andare dalla Madre universale, approdo di salvezza eterna.