Bene – e ben oltre – flash-mob

Avv. Pasquale D’Aiuto

Venerdì 29 maggio 2020 gli avvocati italiani hanno inscenato flash-mob innanzi ai palazzi di giustizia. Hanno cantato l’inno di Mameli e consegnato simbolicamente i codici. La protesta è stata focalizzata sulla mancata, inconcepibile riapertura del settore. Le ragioni della manifestazione sono state legate anche allo stato di salute del comparto, che ha subito il colpo di grazia dalla pandemia. L’eco è stata ampia.

Orbene, per chiarezza, di norma non sono favorevole alle contestazioni in piazza, ai megafoni, alle interviste estemporanee – con i loro inevitabili e deleteri tagli di redazione. Temo che questo approccio possa risultare, pur con le migliori intenzioni, divisivo e limitatoDi norma, lascio le azioni dimostrative e simboliche, specie di gruppo, ad altri, perché credo che noi avvocati, siccome facciamo della cultura, della parola e della scrittura le nostre armi, dovremmo adottare modelli di reazione maggiormente sobri e dialogici. Di norma.

Però quel che sta accadendo oggi sotto i nostri occhi è, semplicemente, un sisma. Che colpisce fondamenta già marce, mura bucherellate, solai traballanti. L’attuale e chiaro tentativo di cancellazione della giustizia è la fine dello stato civile, della democrazia, dell’umanità in senso moderno. E allora io plaudo al flash-mob e pure allo strepito, tanto che penserei addirittura all’occupazione pacifica degli uffici giudiziari; però, a latere, non farei mancare iniziative nel segno di una comunicazione puntuale, come delle conferenze-stampa.

Così, potrei spiegare al mondo, per esempio, che siamo stati allontanati senza ragione da casa nostra; che non ci possiamo rimettere piede se non tramite appuntamento e con una giustificazione valida (ma per chi?); che moltissime udienze hanno subito lunghi rinvii, spesso evitabilissimi grazie al telematico; che non è tollerabile che, in un Paese che si riapre alla fiducia, solo il diritto e la scuola siano maltrattati; che l’incertezza fa a pugni con lo scorrere intollerante dei termini processuali e con le comprensibili esigenze del cittadino coinvolto.

Ma avrei cura di precisare, con il massimo vigore, che la crisi e lo svilimento del compito istituzionale degli avvocati non hanno affatto avuto inizio con la pandemia ma molto, molto prima ed in mille modi, tutti più o meno subdoli. Che l’avvocatura non è colpevole del degrado della giustizia in Italia ma che è vero anche il contrario, perché c’è chi, specie nei più alti ambiti di rappresentanza, ha ceduto potere e voce della categoria in cambio del proprio tornaconto. Certo: a prezzo della dignità.

Ma quelli, almeno, sanno ciò che fanno, godono dei frutti del loro patto, pur contestabilissimo. E noi? In che modo ci siamo opposti? Come abbiamo combattuto il rischio della nostra irrilevanza? Cosa abbiamo fatto per sanare la drammatica cesura tra i pochi fortissimi e la stragrande maggioranza di deboli? Non abbiamo fatto nulla o quasi. Dunque, ecco perché il flash-mob è aria fresca, ossigeno.

Eppure sovviene, come un pugno nello stomaco, il nodo fondamentale: cosa è arrivato alla gente delle ragioni della protesta? Probabilmente, solo il seguente messaggio: “Riaprite i tribunali!”.

Cosa doveva arrivare, invece? “Rivoluzioniamo la giustizia, tutta: ora o mai più!”. Ed è questo il punto debole dei megafoni e delle, pur sacrosante, proteste in piazza: la parzialità del messaggio, nonostante gli ammirevoli sforzi degli organizzatori. Certo, qualunque reazione è meglio del silenzio “decoroso” che abbiamo, con immotivata fiducia, serbato per troppo tempo, fraintendendo il significato di quel lemma – “decoro” – a tal punto da assimilarlo ad un’aurea ignavia – e sempre e solo ai nostri danni.

Però, accanto alle grida ed alle invocazioni coram populo, a noi avvocati conviene reagire mettendo in pratica ciò per cui abbiamo così tanto studiato: affermare pubblicamente, tecnicamente, chiaramente, lucidamente, leggi alla mano, con espressioni taglienti come lame, cosa non va. Con il clamore della logica, puntare alla didattica delle nostre ragioni verso gli addetti ai lavori, i profani e finanche quelli in malafede.

Noi non possiamo fermarci alla pur legittima manifestazione di categoria: dobbiamo pazientemente spiegarci e lo dobbiamo fare in ogni modo consentito e sempre, ogni giorno, in ogni istante, con chiunque, specie i nostri detrattori.

Scrivere, dialogare, dichiarare, postare, commentare, reclamare, annotare, controbattere, verbalizzare, comunicare: pensare!

Ogni qual volta possibile, abbiamo il dovere, prima di tutto verso noi stessi, di denunciare, punto per punto, che la crisi del comparto non è stata determinata dalla pandemia e nemmeno dal caso ma essa è frutto di abissali abbagli come anche di precisi intenti, assunti in stanze e circostanze che oggi vediamo con maggior nitore: errori e volizioni che hanno condotto la professione liberale per eccellenza a divenire il rifugio di decine e decine di migliaia di specializzati senza futuro e senza presente, avviliti e privi di prospettiva.

E non possiamo permetterci di farlo (soltanto) gridando, cantando l’inno o consegnando i codici (ad un’entità astratta e non benigna, mi verrebbe da dire) ma dobbiamo (anche) dialetticamente rendere accessibile a tutti l’enorme mole di problemi irrisolti, esemplificare quanto sia arduo, ormai, agire per i propri diritti e quanto questo colpisca l’intero sistema-Paese.

Abbiamo il preciso compito, a salvaguardia della collettività prima e della professione poi, di articolare la nostra voce in un mantra unitario e lineare, coerente ed instancabile, indomito, fatto di critiche sistemiche, precipue, taglienti e di proposte concrete, semplici, nette che devono fondarsi sul seguente messaggio:

Questa giustizia non va soltanto riaperta: va rifondata!”. Perché la sfida non è tornare alla normalità ma crearne una nuova.