Rousseau e le donne (2)

Aurelio Di Matteo

È una distinzione dicotomica che lo stesso Rousseau sottolinea nella prefazione del libro: “Una ragazza casta non ha mai letto romanzi; a questo ho posto un titolo abbastanza chiaro perché chi lo apre sappia di che si tratta. Colei che, nonostante il titolo, ardirà leggerne una sola pagina, è una ragazza perduta; ma non imputi la sua perdizione a questo libro, il male era fatto già prima. Poiché ha cominciato, finisca: non rischia più niente”.

Non tutto è tranquillo nel vivere la dicotomia imposta dall’esteriorità del “dovere” e delle convenzioni.

In un’altra lettera di Giulia: “Per ogni dove non vedo che argomenti di contentezza, e non sono contenta. Un segreto languore mi s’insinua in fondo al cuore, lo sento vuoto e gonfio, come una volta dicevate del vostro; l’affetto che provo per tutto quanto mi è caro non basta per occuparlo, gli rimane una forza inutile di cui non sa che fare. È una ben strana pena, lo ammetto; ma non perciò è meno reale. Amico mio, son troppo felice; la felicità mi annoia.

In questo benestare c’è sempre un’inquietudine di fondo che diventa noia quotidiana e desiderio di altro che non sia la routine dell’emarginazione del convenzionale e doveroso ruolo di moglie e di madre. Il contrasto tra la vita vissuta secondo l’etica, tra i doveri imposti dalle convenzioni sociali e la vita vissuta secondo le autonome determinazioni del suo essere donna nella pienezza dell’essere persona, si riflette nell’intima scissione: “Tuttavia vivo inquieta; il mio cuore non sa cosa gli manca; desidera senza che sappia che cosa. Poiché non trova nulla quaggiù che le basti, l’anima mia cerca avidamente altrove qualcosa che la riempia”.

Qualcuno ha visto in questa situazione psicologica della protagonista Giulia la “bellezza sentimentale” del turbamento romantico. Certo, si potrà vedere anche questo! Non serve, però, a nascondere la complessiva visione piccolo borghese e il convenzionalismo sociale connesso alla religiosità, sia la rigida calvinista del padre, prima, sia quella successiva meno opprimente del pastore Lambercier di Bossey, pur sempre ispirata agli inderogabili principi religiosi e morali.

E poco dopo Rousseau, pur convertito al Cattolicesimo per la frequentazione di Madame de Warens, che gli darà ogni aiuto dopo il trasferimento nella Savoia, respirerà ancora un ambiente fatto di regole morali e di “doveri” sociali. Anzi, sperimenterà di fatto su se stesso la scissione interiore che era rappresentata nella Giulia-Eloisa del suo romanzo, quando della sua protettrice diventerà l’amante.

In fondo nel “rivoluzionario” Rousseau, si rifletteva tutta intera la sua visione politica sostanzialmente giusnaturalista, seppur anomala, e giacobina. È vero che egli elimina il “contratto di dominazione” e si presenta come il rivoluzionario precursore del marxismo, tesi, questa del giacobinismo, alla quale dettero sostegno gli stessi Marx e Lenin e molti altri storici e pensatori di ascendenze marxiste, a cominciare dallo storico francese Mathiez.

Aveva, invece, visto bene Antonio Gramsci che gli aveva dato la giusta definizione di “fenomeno puramente borghese”, anche se in seguito, per motivazioni contingenti ed operative, giudicò positivamente la sua prospettata alleanza tra borghesia e masse contadine.

Rousseau non è altro che un partigiano della piccola borghesia. Forse le proposte che le classi sociali privilegiate non potevano accogliere e la sua ostilità contro la grossa borghesia hanno fatto sì che fosse visto come un anticipatore del pensiero marxiano. In Italia i sostenitori di questa tesi furono negli anni 1960/’70 Galvano della Volpe e Lucio Colletti.

La sua visione complessiva non ha niente del Comunismo e delle analisi di Marx. Direi che nel suo complesso è quella che oggi attribuiremmo al conservatorismo moderato e progressista della media borghesia. Egli non comprende il “primordiale comunismo dei beni”, tanto meno l’”accumulazione originaria”; né rifiuta i presupposti strutturali del Capitalismo nascente. Resta il fautore della proprietà privata dei beni di produzione. Conservando l’esistenza dello Stato, non può essere considerato nemmeno il fautore di una democrazia diretta, che per prima cosa prevede la sola istituzione della società civile quale soggetto costituente. In fondo il suo “Contratto sociale” non è altro che un accordo pattizio tra piccoli borghesi proprietari dei mezzi di produzione.

Il suo modello di Società non poteva non comportare una visione della donna tipicamente piccolo borghese, conforme ed adeguata a quella che caratterizzava la sua epoca. La differenza di genere era accentuata ancor più per i ruoli rigidamente assegnati alla donna, per cui la superiorità dell’uomo era sancita nettamente, sul piano etico, socio-economico e giuridico. È una superiorità che emerge ancor più evidente e teoreticamente motivata proprio nella sua opera forse principale, in ogni caso maggiormente conosciuta e citata nel settore degli studi pedagogici, l’Émile.

C’è anche un altro ascendente, piuttosto psicologico, connesso alla sua vita, che influisce senz’altro sull’importanza data alla figura femminile nel ruolo di madre, soprattutto sul piano educativo.

Egli non ha avuto mai una madre e le sue cure, avendola perduta nel momento della nascita.

Sempre nelle Confessioni rievoca la sua nascita e la presenza della madre mai vista, nel ricordo emotivo che ne ha il padre, che insieme a lui legge ogni sera uno dei libri che essa aveva lasciato: “Costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la prima delle disgrazie. Non ho mai saputo come mio padre sopportò quella perdita, ma so che non se ne consolò mai. Credeva di rivederla in me, senza poter dimenticare che gliela avevo tolta io: non mi abbracciò mai senza che io non sentissi dai suoi sospiri, dai suoi abbracci convulsi, che un rimpianto amaro s’insinuava nelle sue carezze”. (continua)