Giustizia e giustizialismo: il suicidio della Politica

Aurelio Di Matteo

Negli ultimi anni molti governi, nonostante avessero una maggioranza stabile e largamente maggioritaria, si sono consumati con rapidità, mandando al macero quasi tutti i protagonisti ritenuti illusoriamente novelli messia. Si parva licet componere magnis, questi novelli Napoleoni sono passati nel giro di qualche anno dall’altare alla polvere. E su tutti, seppur in un tempo più lungo, anche colui il cui nome ha significato il colore e l’identità di oltre un ventennio. Imperterriti, acquisito il volto del messia, pur a fronte di evidenti insuccessi e bocciature elettorali, hanno continuato a sciorinare i soliti slogan messianici. Con un effimero e mediatico gioco del pro e del contro, più gridato che pronunciato, sembra che in tutti sia allignata la sindrome suicida e il gusto macabro della morte della politica, che, al contrario del loro universo culturale, è innanzitutto elaborazione progettuale, dubbio, confronto con la realtà, ascolto e colloquio con i cittadini, autocritica, consapevolezza dei problemi e soluzione adeguati al futuro della società. Non certo azione per conquistare o consolidare il proprio potere, a prescindere.

E, purtroppo, con l’insano suicidio della politica ci si avvia inavvertitamente e inconsapevolmente verso la morte della democrazia. Come spesso accade gli assassini non vengono né dallo spazio né da oltre confine, ma sono le stesse vittime che con grossolani errori stanno attentando alla propria vita e a quella sociale e civile così faticosamente conquistata dopo il ventennio fascista, la sconfitta del nazismo e la fine del mito sovietico. Tra i tanti errori commessi, che attengono alla incapacità di attivare condizioni per lo sviluppo economico, per diminuire la disoccupazione e ridistribuire equamente la ricchezza, ne stanno commettendo altri due che risulteranno esiziali. Non certo per loro, ma per la politica e la democrazia tout court.

Il primo errore è senz’altro il rinvio e la finzione dei tagli al sistema politico, qualificatosi progressivamente come casta feudale; il secondo attiene alla progressiva eliminazione delle garanzie costituzionali dei parlamentari in connessione con quelle delle libertà e dei diritti civili nella loro multiformità giuridica.

Nelle intenzioni dei protagonisti voleva e vuole essere un modo per dimostrare che la “casta” rinuncia alle sue prerogative. Non c’è stupidità peggiore che pensare di riparare a una stupidità con un’altra! Una cosa sono i privilegi, altra cosa sono le garanzie che la Costituzione aveva contemplato e statuito per bilanciare i poteri dello Stato e consentire ai cittadini l’esercizio dei propri diritti. E chi sventola polemicamente la Costituzione dovrebbe farlo lungo tutto l’arco della giornata non a ore alterne! La democrazia vive e si alimenta proprio con l’equilibrio dei poteri e la sussistenza delle garanzie civili. Quando si mantengono i privilegi e si eliminano le garanzie ci si avvia precipitosamente verso regimi certamente non democratici. E i Regimi, di qualunque colore e natura essi siano, non ringrazieranno di certo chi con tanta idiozia ne ha consentita la nascita.

Se riandiamo alla fine della cosiddetta prima Repubblica, a distanza di tempo si deve riconoscere che la caduta del cosiddetto Craxismo non fu causata dalla Magistratura, ma dalla mancata realizzazione delle riforme con le quali si sperava che la Società e lo Stato potessero essere ammodernati lungo la strada di un attento ed efficace riformismo. Il silenzio assordante e pusillanime in cui cadde il Parlamento dopo il famoso discorso di Craxi, e la stupida decisione di togliere l’immunità e le garanzie parlamentari, che i Padri costituenti avevano introdotto per bilanciare l’autonomia e l’indipendenza dell’Ordine – non Potere! – giudiziario, furono gli atti terminali dell’eutanasia della politica e dei partiti. Oggi sentiamo tutto il peso e le rovinose conseguenze di un atto di acquiescenza e di servile ossequio a un falso moralismo e a un giustizialismo, da una parte ideologicamente stalinista e dall’altra sostitutivo dell’assenza di valide e funzionali proposte politiche.

Quando la politica si avvita e si esaurisce sulla “questione morale”, sulla quale, dimenticando la lettura strutturale marxiana, incentrò l’azione politica Berlinguer, comincia il suicidio della politica. Proprio la proposta, sostanzialmente da Stato etico, di Berlinguer fu il maggiore ostacolo al cambiamento e al rinnovamento della società, in una con il deleterio rifiuto dell’unità a sinistra con i socialisti. E la bandiera “moralista” di Berlinguer sfociò nel socialmente deleterio Compromesso storico con l’appoggio esterno del PCI al governo di solidarietà nazionale presieduto proprio da quell’Andreotti successivamente dallo stesso leader “comunista” vituperato perché alleato con il Partito socialista. Quando il moralismo dimentica i problemi strutturali della società, finisce per essere un vuoto a perdere o esercizio del potere tout court.

L’ascesa di Craxi, che ben aveva compreso le urgenze del Paese, fu favorita dall’organica e strutturale proposta della Grande Riforma. La classe politica della Prima Repubblica non fu sconfitta dalla Procura di Milano o di Palermo, ma dalla mancata attuazione proprio di quelle riforme che il Paese aspettava e che aspetta ancora, prefigurate nella iniziale proposta craxiana.

Analogamente la fine del periodo berlusconiano, a parte il riferimento anche all’età del protagonista, non è stato determinato dalle tante inchieste, dai tanti processi e da qualche condanna ai quali è stato sottoposto, ma, come per Craxi e poi per Renzi, quest’ultimo caricatura del Divino Otelma, dalla mancata attuazione delle tante riforme annunciate nel programma, attese dai cittadini e dalle forze produttive del Paese e in tanti anni ancora non realizzate: ammodernare l’articolazione dello Stato operando tagli veri ai costi della politica e non limitandosi a pochi privilegi come le auto blu che non comportano grandi risparmi; eliminare l’invadenza dello Stato e quindi della politica dalle attività e dalle gestioni produttive; semplificare la pubblica amministrazione, fare emergere il lavoro sommerso e quello in nero; riformare il rapporto di lavoro senza togliere diritti e garanzie ai lavoratori; semplificare e razionalizzare il fisco ed eliminare l’evasione fiscale, quantomeno ridurla sensibilmente; rendere la giustizia non solo rapida ed efficiente, ma a servizio e a garanzia dei cittadini; porre fine alle tante, piccole e grandi, corporazioni sulle quali è strutturata la società. Sono solo alcune delle molte riforme delle quali c’è bisogno. Alcune di queste avrebbero acquistato anche un valore simbolico: semplificare e razionalizzare le strutture degli Enti rappresentativi, sia di programmazione sia di gestione; realizzare il dimagrimento della casta politica con la drastica riduzione del numero dei parlamentari, degli Enti, delle migliaia di inutili e finte Società “partecipate”, con bilanci fallimentari e clientelismo sempre in attivo; eliminare le rappresentanze formali, burocratizzate, costose e luogo di privilegi. Di sicuro avrebbero riavvicinato il cittadino alla politica.

La viltà e il meschino calcolo dell’improbabile tornaconto elettorale che potrebbe derivare dal gioco del pro e del contro, dalle accuse moralistiche all’avversario – azione politica reciprocamente sempre in atto – l’attaccamento spudorato ai privilegi e la proliferazione di Consigli di Amministrazione dalle identità tanto più varie quanto costose e feudali nell’investitura, sono gli strumenti letali che la politica e i partiti hanno scelto per decretare la loro morte e con essa una normale vita democratica. La mediocrità politica e la mancanza di idee fanno il resto, lasciando spazio alla spregiudicatezza della finanza e dell’economia che troveranno sempre la disponibilità di un “tecnico”, ufficialmente o in ombra come consulente, esecutore di ordini e di una corte di mediocri e balbettanti politici. A loro importa poco che i cittadini continuino ad impoverirsi e a disertare le urne – ultimo esempio Sardegna 15%. Tanto, basta che una minoranza, qualunque sia, meglio se “familiare”, vada alle urne per consentire loro di operare in Borsa e negli affari, leciti o illeciti che siano, e di godere dei privilegi delle tante articolazioni di rappresentanza e di gestione create dalla politica.