Bruno Ravasio “Una vita nel pallone” …l’Italia che fu!

Piero Lucia

Una bella storia, quella raccontata da Bruno Ravasio, fluida e scorrevole che, fin dalle prime pagine, per l’efficacia e l’essenzialità, riesce a captare l’attenzione del lettore. E che forse coinvolge maggiormente in quanto non si snoda nè si consuma dentro il recinto parziale della sua narrazione. Non è solo la vicenda, storicamente datata, sportiva ed umana, di molti decenni fa, di Virginio Ubiali, “ Gepì”, rievocata da un lembo di terra bergamasca, spicchio di un’Italia semplice, in bianco e nero, che faticosamente inizia a riprendere un cammino e ormai prossima ad epocali cambiamenti. E’ uno sguardo, quello dell’autore, che spazia con agilità- contemporaneamente e in parallelo- su altre dimensioni, su più diversi fronti. Tra fatti e vicende, politiche e sociali di quel tempo, mischiate nella trama con equilibrio e con misura. Una miscela, ben riuscita, che si collega a quanto già vissuto, negli anni appena antecedenti, in una realtà del nostro bel paese sfregiata- come tante- nell’anima e nelle carni, dal trauma lacerante della guerra. Una ferita profonda, ancora aperta e non cicatrizzata, che è necessario ad ogni costo saturare. Impresa ardua, che avrà bisogno del massimo e appassionato impegno collettivo. Dopo l’agghiacciante fragore delle bombe, s’inizia a respirare finalmente un’aria nuova, di gaia spensieratezza, e come di vivida sorpresa, per la riconquistata libertà.  Un clima nuovo, denso di un’energia vitale dirompente, che in varie direzioni si rimette finalmente in moto. Rinascono inedite forme di partecipazione collettiva, e di socialità, iniziano a dileguarsi le angosce e le paure disseminate ovunque nel lungo tempo della dittatura e poi acuite dall’esplosione feroce e  rovinosa della guerra, che col suo enorme carico di morte, di lutti e di rovine, ha sfigurato in lungo e in largo il Bel Paese. C’è una nuova, prorompente gioia di vivere e di agire che, convulsamente, riesplode tra chi è sopravvissuto a quella dura prova! Rimuovere le macerie, materiali e morali. E’ questo l’imperativo! E’ come una frenesia, volta a rimpadronirsi di getto del pezzo di esistenza che si è perso. Il calcio, in quello specifico contesto, sviluppa una funzione di attrazione e di collante, un ruolo diffusamente coinvolgente capace di realizzare, dentro l’immaginario collettivo, un’originale forma di coesione. E’ uno degli strumenti, più semplici e immediati, per rimettere insieme una socialità scomposta, per ricomporre identità smarrite, uscendo dalla solitudine e dalla disgregazione, in modo da ridare una nuova vitalità alla Nazione. Un modo, rapido e sicuro, per far riemergere un grumo di speranze da troppo tempo sullo sfondo compresse e tristemente relegate. E’questa una possibile visione in filigrana, per percorrere la trama e la vicenda umana del protagonista della storia, il suo  integrale confondersi col gioco del pallone, il suo mischiarsi agli amici sui campi di gioco di provincia impolverati. Ritornano a pulsare i sogni, le passioni, le speranze e le utopie inconfessate, a lungo riposte e preservate in un angolo discreto di sé stessi, nel prezioso e inaccessibile scrigno della mente. Emozioni, spezzate e poi finalmente di nuovo ricomposte in un’organica e coerente narrazione. Passioni e desideri, dopo il letargo incolpevole e tenue dell’adolescenza, oltre la prima gioventù, riemersi in superficie a nuova luce, forti della loro contagiosa nitidezza. E che emigrano, nell’essenza intatti, dall’anima sulla pietra bianca levigata, ancora non scalfiti nè distorti da una modernità, trasfigurata da fievoli e ingannevoli valori, che in un solo istante ed indistintamente ogni cosa vissuta fagocita e consuma. Siamo in sostanza di fronte ad un volume inusuale, composto con l’abile maestria propria di un artigiano, in un equilibrio di rara ed inconsueta qualità. Per più aspetti piacevole sorpresa, esempio concentrato di un’esperienza che trasuda d’ intensa umanità, e nel suo svolgimento si proietta in nuove prospettive di confine. Pagine lievi, eppure attraversate da forti e ossificate convinzioni. Il sogno dell’autore, vissuto con gli occhi stupefatti di bambino è reso di nuovo attuale, e s’identifica con l’antico gioco del pallone e in specie col suo eroe. Un bambino che è diventato rapidamente uomo senza dimenticare ciò che è stato. Il sogno, che rivive e che si fonde con lo straordinario protagonista della storia, l’inimitabile funambolo virtuoso, esclusivo nella sua unicità, plastica sintesi simbolica di aspettative e di speranze collettive, di voglia di riscatto di una comunità operosa che in larga parte si riflette in lui. Una comunità, di gente semplice, ai margini del clamore delle cronache, e tuttavia pregnante di appassionata umanità, per questa ragione superiore immersa a pieno titolo nell’infinito fluire della Storia. Un filo antico, lacerato, che viene ricomposto in una compatta, progressiva, feconda unicità. Il sogno inconfessato, misto di fantasia e di nostalgia, che poi contagerà- con forza dirompente- milioni di ragazzi della sua stessa età. Storia particolare, certo, e tuttavia simile a milioni e milioni di altre storie. Nel nuovo, inedito scenario che si schiude, in ogni contrada di quel tempo, ciascuno sceglierà il proprio mito, magari per casualità. Una figura cara, destinata a rimanere infissa, nel cuore e nella mente, per tutta l’esistenza. Memoria di una storia, destinata per mezzo della parola scritta a rimanere intatta. Io stesso ho vissuto una condizione di sostanziale identità con quanto raccontato nelle pagine del libro. Alla fine degli anni ’50, e per tutto il decennio degli anni ’60, venne a Firenze uno svedese, gracile e minuto. Scendeva in Italia da un angolo fatato dell’estremo Nord, un posto lontano che immaginavo ancora popolato dagli Elfi e dalle fate delle fiabe. Fu scelto da chi scrive per sempre come suo inarrivabile campione. In una maglia di colore viola, col giglio disegnato sopra il petto, in una delle squadre più grandi di quei tempi, emblema della città culla d’origine della lingua nazionale. Grandi gli squadroni di quell’era,la Juve, il Milan, l’Inter, gremite a loro volta di impareggiabili campioni. Scelta minoritaria, rispetto alla vulgata prevalente, e tuttavia difesa nel tempo con tenacia, mai destinata a sfumare o a diluirsi. Il tempo, che inesorabile trascorre e si consuma, più che allentare, accentua l’invisibile legame che ti unisce a personaggi-simbolo di un altro mondo antico, ricoprendo il ricordo di un indissolubile alone di emozione e di dolcezza. La forza del racconto di Ravasio è anche nel suo essere una storia per così dire “dilatata”, non comprimibile nell’esclusiva e parziale dimensione territoriale di un piccolo e marginale borgo di provincia.  Tra i vari temi, che insieme si sfiorano e convivono, a volte quasi sovrapponendosi tra loro, centrale appare quello del lavoro, strumento decisivo di riscatto per superare antiche ingiustizie e incrostazioni di un mondo e di una realtà territoriale al proprio interno ancora troppo diseguale. Sullo sfondo il contesto ambientale, le case popolari, i quartieri operai, le grandi fabbriche, il Cotonificio Legler, in cui col sudore della fronte di migliaia di uomini ci si impegna a costruire un futuro, migliore, diverso e più avanzato, per una comunità che si è rimessa in moto! Il segno peculiare della ricerca di un possibile riscatto, umano e materiale.In filigrana, oltre allo sviluppo della singola storia rievocata nel progredire delle sue distinte fasi, è questo a me pare l’ambito dei confini in cui rintracciare il filo conduttore  di una narrazione. Il racconto, insieme individuale e collettivo, semplice ed essenziale, privo di retorica, senza alcun superfluo abuso di parole, storia di mondi concentrati, in cui nel tempo, come è per sempre nella storia umana, vittorie e sconfitte insieme si sommano tra loro. Un contesto, non scisso da un tempo storicamente dato, segno di una complessa transizione di una società particolare, con i suoi usi, le tradizioni ed i comportamenti antichi, la sua specifica cultura. Tracce che s’identificano e s’integrano a pieno con l’uomo che gioca col pallone, a cui si affidano speranze inconfessate, aspirazioni di vita ed ansie di riscatto. Nella comunità di Ponte San Pietro non c’è ragazzo che non vorrebbe anche solo in parte identificarsi in lui!  In una dimensione, più appagante, in cui infine si riflette un tratto ingenuo di autentica poesia. Finanche l’uomo più umile del mondo, per una volta almeno, è portatore sano di un diritto naturale, quello di sognare, alzando il proprio sguardo al cielo, diventando leggero come piuma, immerso nel bianco chiarore luminoso delle stelle.  Il testo di Ravasio è in tal senso- e non a caso- denso di  molteplici, successive suggestioni. Un campo di calcio di provincia, uno dei tanti, sterrati e polverosi di un angolo d’Italia degli anni ’50, su cui per ore ciurme di ragazzini, scalzi e impolverati, rincorrono un pallone. Ponte San Pietro, nella lontana provincia bergamasca, un campo minore della Serie D, nella stessa zona della maggiore squadra locale, l’Atalanta, con le orgogliose casacche nerazzurre. La squadra di Ponte San Pietro non può certo essere eguale alla squadra maggiore di Bergamo e tuttavia nelle sue fila annovera Virginio Ubiali, il “Gepì”, autentico, inarrivabile funambolo. E’ un numero 10 naturale, capace delle più impensate acrobazie, che intercetta la sfera col sinistro fatato di una calamita, e che disegna parabole di una bellezza rara. Nelle giornate di particolare ispirazione finanche irride senza ritegno l’avversario. Un giocoliere, che si esibisce con l’abilità degna di un virtuoso acrobata di circo. In miniatura simile ad uno dei più grandi giocatori di calcio di quei tempi, un altro 10, vestito di casacca bianconera, un argentino che con Maschio e Angelillo comporrà  l’ineguagliabile trio degli “Angeli dalla faccia sporca”. L’estroso gioiello di Ponte San Pietro era assurto agli onori della cronaca locale piuttosto tardi nel tempo, a 30 anni di età. Proveniva da una famiglia povera e modesta e per vivere era stato costretto a fare l’operaio, proprio nella Legler. La sua vera, inesauribile passione era però quella di tirare calci ad un pallone, nei modi più imprevedibili e impensati, mirando da ogni direzione verso la porta con precisione estrema. Ponte San Pietro, ed il legame fortissimo col luogo in cui era nato e dove era cresciuto, un rapporto profondo e indissolubile, col tempo rafforzato e mai venuto meno. Aveva bighellonato, da calciatore con scritto nel destino di diventare un gran campione, tra i più diversi luoghi, Novara, Biella, Crema, Lecco. E tuttavia ogni esperienza vissuta da professionista, pur ripagandolo dal punto di vista materiale, finiva per riportarlo al punto di partenza, nel luogo da cui aveva mosso i primi passi. Una calamità, e forse un’autentica condanna, da cui misteriosamente non riuscirà mai a sottrarsi in alcun modo. Un punto dello spazio, che occupa in ogni poro la tua anima, da cui più ti allontani più ti richiama a sé. Fuori dal suo contesto “ Gepì” finiva puntualmente preda della tristezza e della malinconia! Per questo, alla fine, ritornava sempre al suo paese! In conclusione, una storia semplice, una storia vera. Ed un insegnamento. La felicità non ha prezzo e non la si può acquistare solo col danaro! E’ più importante l’armonia col proprio io, attraversare il tempo che ci è dato insieme agli amici cari della gioventù, coi quali continuare a condividere, con naturalezza, le esperienze e le scelte di vita più importanti. E non ha prezzo il vivere in un ambiente sano, dentro le strade ed i quartieri della tuo piccolo borgo cittadino, dove conosci tutti, in quella dimensione di cui respiri a pieno l’aria ed il valore col vero significato di ogni cosa. In quell’ambiente che è sempre pronto a raccoglierti di nuovo, tendendoti le braccia con amore. E’ questo ciò che vale, e che ti consente di sentirti ancora vivo e vero! Altro è superfluo, se ne può fare a meno. E’ questa la dimensione che mai nessuno ti potrà sottrarre! Il lieve sogno, che dentro di te continua ininterrotto a vivere e a pulsare, neanche il più grande mare burrascoso lo può portare via….