L’interventismo riluttante degli U.S.A.

Amedeo Tesauro
Magari si tratta soltanto di parole di circostanza, promesse per rassicurare i tanti cittadini che verrebbero toccati personalmente da nuovi conflitti, ma stando a quelle parole gli Stati Uniti non si faranno coinvolgere in un’altra guerra. Niente truppe di terra, solo raid aerei per un intervento a difesa dei civili divenuto necessario, così viene annunciata l’iniziativa statunitense in Iraq. Di più, Obama ha dichiarato esplicitamente che “gli Stati Uniti non possono e non devono intervenire ogni volta che c’è una crisi”, considerazione forte se relazionata alla storia del paese. Da un secolo Gli Stati Uniti non hanno pretese isolazioniste, e dalla seconda guerra mondiale in poi hanno al contrario assunto il ruolo di comando di un intero sistema, quello che un tempo veniva definito “mondo libero”. Lo scenario scacchistico generatosi alla fine della guerra, fatto di paesi alleati o viceversa di nemici alleati con gli altri, animò interventi volti a non perdere la supremazia del globo, rivelando già allora i limiti dell’interventismo statunitense. Episodi come la “Baia dei porci” o il rovesciamento del governo cileno a favore di Pinochet sono episodi controversi spesso sottovalutari, sacrificati ad una visione che vuole necessariamente buoni e cattivi, e dove gli U.S.A. giocano ovviamente la parte degli eroi. Fu però la guerra in Vietnam a scatenare un dissenso totale, tale che negli stessi States l’adesione alle operazioni calò drasticamente  in pochi anni. Il Vietnam divenne quasi subito proverbiale, emblema di una politica estera americana volta a condizionare pesantemente le realtà di paesi esteri, un non-conflitto che vide gli Stati Uniti sconfitti e feriti nell’orgoglio. Il resto è storia recente, gli interventi in Medio-Oriente e un mestiere di truppe d’occupazione portato avanti in maniera sempre più discutibile. La minaccia del terrorismo ha animato e coperto gli interventi americani degli anni 2000, eppure perfino il patriottismo americano pare essersi reso conto delle falle di certe scelte. I rivali di Obama accusano il presidente di quanto sta avvenendo in Iraq sostenendo che l’instabilità creatasi deriva dalla scelta di ritirare le truppe nel 2011, scelta che tuttavia era invocata da buona parte dell’opinione pubblica. Inoltre non si può pensare di proseguire eternamente missioni di guerra o pace che siano, commissariando di fatto intere nazioni. Con più fronti caldi aperti (Iraq, Ucraina, Israele) il ruolo di supervisore globale che gli U.S.A. hanno spesso rivendicato rischia di vacillare. Troppa fatica, troppe questioni aperte e troppe dilemmi sulla legittimità di certe scelte, mai come ora gli States mostrano i limiti del proprio operato. Obama giustifica con la necessità di proteggere i civili l’ennesima operazione, tuttavia pare esserci più di un fondo di verità nelle sue parole, espressione di una stanchezza del paese nel porsi in prima linea ad ogni scintilla internazionale. Forse è semplicemente il segno dello scenario mutato, un contesto dove non agiscono più due paesi a capo dei rispettivi blocchi, ma sorgono nuovo potenze ed i paesi ai margini modificano i propri assetti