La lingua italiana e il dialetto
Claudio Di Mella
Si ritiene solitamente che il dialetto sia una discendenza della lingua, anzi, che sia la lingua nazionale adattata ad un uso dialettale. Le cose, però, non stanno sempre così. L’Italia nacque come paese dei dialetti, già Dante ne conosceva parecchi, ma a lui non sfuggiva che bisognava cercare un filo unitario e organico fra le varie parlate dialettali. Non scelse il fiorentino come lingua madre, ma il volgare illustre, facendo indispettire non poco i suoi concittadini. Eppure la lingua di Dante, che è poi diventata la lingua di tutta l’Italia, ha molto del fiorentino, laddove, alcuni secoli dopo, Pietro Bembo, nelle prose della Volgar Lingua, cercò di disciplinarne l’uso. Per Pietro Bembo, che non era Dante Alighieri, la lingua italiana e la prosa d’arte dovevano assumere come modello il Boccaccio per la prosa ed il Petrarca per la poesia, entrambi anch’essi fiorentini, ma iniziatori dell’Umanesimo. Siamo al ‘400. Nel ‘500 vennero fuori altre teorie contrastanti, tra cui le tesi fiorentiniste, quelle toscane e quelle che volevano tessere la lingua da servire agli scrittori. Sicché si operò uno stacco netto tra la lingua dei dotti e la lingua del popolo, detta anche popolare, o vernacolo, cioè servile, da schiavo nato in casa. Questo significa “verna”. I dotti, in realtà, erano quelli che erano andati a scuola, cioè i nobili, mentre la scuola, i poveri la guardavano col binocolo. Il ‘600 conobbe sia la prosa d’arte, sia la prosa scientifica, sia la letteratura popolare. In tempi molto vicini a noi, è stato però stabilito che il dialetto può servire per trattare qualsiasi argomento, e non soltanto gli argomenti minimi legati al pensiero domestico. Il che vuol dire che il dialetto è stato promosso a vera e propria lingua, sicché la Divina Commedia, che tutt’ora è la fonte massima della lingua italiana, potrebbe anche essere stata scritta nel dialetto siciliano. L’800 ebbe un rigurgito di metrica classica e classicista, con in testa Giosue Carducci, che di definì “scudiero dei classici”, ma anche Giacomo Zanella ed altri ancora, ma, superata questa nuova ventata, si ritornò alla storia di sempre. Il primo grande tentativo di unificare la lingua italiana e di metterla alla portata di tutti, fu compiuto da Alessandro Manzoni, col suo capolavoro infinito “I promessi sposi”, che ebbe un enorme successo e grande popolarità. Anche nell’Italia del Sud non mancarono suoi ammiratori, vedi Pietro Paolo Partanese di Ariano Irpino. La vera base della lingua nazionale fu dunque il capolavoro del Manzoni. Dopo di allora, le cose continuarono più o meno a procedere come prima dell’800, ma l’impronta del Manzoni fu considerata ed è incancellabile. Non è mancato chi ha celebrato il de profundis al dialetto. Uno di questi è stato Giorgio Barberi Squarotti dell’Università di Torino, ritenendo che il dialetto non servisse più a niente, visto che gli italiani ormai avevano una lingua comune e la comprendevano tutti. Se si parte dalla letteratura dialettale a quella popolare bisognerà tenere conto, innanzitutto, dell’osservazione del Pascoli, il quale sosteneva che quello che conta è la poesia, prescindendo dagli strumenti di comunicazione. Benedetto Croce osserva che c’è differenza fra la letteratura dialettale spontanea e la letteratura dialettale riflessa. “La letteratura d’arte o riflessa si distingue in ciò dalla letteratura dialettale spontanea, che questa o precede lo svolgimento della letteratura nazionale e , in tal caso, non si può neppure chiamare dialettale, mancando il termine di riferimento per qualificarla con questo “nome” ovvero è giustamente detta dialettale. La letteratura dialettale è detta così perché persiste accanto a quello svolgimento e con una propria legge, come nell’ordinario parlare del volgo e nei motti, negli aneddoti, nelle leggende, nei versi satirici e morali e nelle altre cose che il volgo foggia“. Altro problema molto di battuto è quello della popolarità della lingua italiana. A porlo con prepotenza sul tappeto è stato Antonio Gramsci, ma più per motivi socio-politici che per motivi estetico-letterari. La questione era già stata affrontata verso la fine dell’800, addirittura dal Carducci, poeta di formazione classica, che pure aveva discusso nel famoso “Saggio di critica e arte” del 1874 “se la poesia ha da essere arte, ciò che dicesi forma e ha da essere della poesia, almeno tre quarti“, poi aveva affermato che “molto in letteratura dipende dall’aver fatto un buon corso di retorica“. Insomma per il Carducci la letteratura non cessa di essere arte o stile. “Quanto alla popolarità, nessuno scrittore può essere definito impopolare. Ogni letteratura nella visibilità è popolare per forza propria, per necessità di cose; nella gioventù, poi, è opera più o meno del popolo stesso“. Il fascismo non aveva troppo amato la cultura veramente popolare, e neppure una letteratura autenticamente popolare e un linguaggio “volgare”; poiché sosteneva la purità e la proprietà della lingua nazionale. Infatti non apprezzò molto il neorealismo. La valorizzazione del dialetto, come lingua capace di esprimere ogni argomento, è dovuta a Pasolini e ad altri che lo elevarono al rango di lingua nazionale. Sul dialetto e sui suoi valori insistette anche Giacomo Debenedetti. Anche Maria Corti diede il suo contributo, tanto è vero che oggi si può usare il dialetto per affrontare ogni argomento, cioè esso ha pari dignità della lingua. Normalmente il dialetto deriva della lingua, ma per quanto riguarda l’Italia, la ricchezza della lingua è figlia dei numerosi dialetti regionali.