Parco del Cilento: non chi? Ma quale Parco?

Aurelio Di Matteo

Sono trascorsi 23 anni dalla sua istituzione e 16 dal suo inserimento nella word heritage list dell’UNESCO. È la più grande area protetta d’Italia. Potrebbe costituire la principale risorsa economica della zona. È doveroso, allora, porlo all’attenzione della cultura, della politica, degli amministratori e dell’opinione pubblica, soprattutto nell’imminenza, forse, della periodica nomina del suo Presidente. Meritoriamente e opportunamente lo sta facendo la stampa, particolarmente quella locale. Se ci si fermasse al “chi nominare?” sarebbe, però, domanda inutile, fuorviante e pur sempre funzionale alla consueta logica di una gestione politicamente oscillante tra il podestarile e il compromissorio, l’assistenzialismo e l’inefficienza. Sarebbe gestione deleteria? No, piuttosto inutile e sprecona, e perciò più condannabile, ai fini dello sviluppo e della promozione delle enormi potenzialità di un’area gratificata dalle divinità e dalla storia. Certo i nomi fatti (politici-uomini di cultura-amministratori) sono tutti degnissimi, ma non basta. Fu questo l’errore che la politica commise con la nomina dell’attuale, rivelatosi in questo quinquennio mediaticamente molto ornamentale, ma di modestissima e casalinga modalità gestionale, peraltro consumata per inaugurare più volte un costoso roseto, peraltro rimasto soltanto virtuale. La grave decrescita del turismo balneare, già per se stesso quasi fisiologico in questo periodo, la desertificazione inarrestabile delle aree interne, il mancato sviluppo e l’inesistente promozione delle tipicità agricole delle aree collinari, lo spot pubblicitario di utopiche stazioni sciiscite, l’abbandono a se stesso del patrimonio faunistico e floristico, i frequenti scempi paesaggistici a fronte di inesistenti interventi di valorizzazione e salvaguardia del territorio, sono sufficiente testomonianza dell’errore commesso con una nomina che parta da un nome senza una consapevolezza progettuale, che non sia attenta alle attuali e future esigenze e richieste delle linee di sviluppo dei Parchi e dei territori protetti. Prima della nomina dell’attuale, cinque anni or sono, sollecitavo con insistenza la sostituzione dell’elitario ed estraneo alla specificità dell’area prof. De Masi, dando alcune motivazioni che investivano le diverse prospettive di gestione dei Parchi e delle aree protette, che erano altra cosa dell’esperienza maturata a Ravello. Sarebbe opportuno, maggiormente oggi, che la nuova nomina scaturisse da una esplicitata e preventiva prospettiva progettuale risolutiva degli annosi problemi e coerente con una innovativa concezione di sviluppo, valorizzazione e conservazione. Non è casuale che la Conferenza nazionale sulle aree protette, svoltasi l’11 e 12 dicembre u.s. presso l’Università La Sapienza, abbia avuto come tema d’incontro e come conclusione l’obiettivo della green economy quale strategia per il rilancio e lo sviluppo del Paese. Era questo il problema che ponevo allora alla rinnovata direzione gestionale del Parco del Cilento. Oggi, a fronte della crisi economica che ha investito il Paese e ancor più la nostra zona, diventa urgente e fondamentale partire non da un nome ma da un chiaro, compiuto e consapevole disegno progettuale per ripensare il ruolo dei Parchi e delle aree protette, affinchè non siano considerati angoli di natura da contemplare – peggio se lasciati all’incuria del non intervento – ma propulsori di sviluppo e di occupazione produttiva rispettosa e protettiva dell’ambiente. Si tratta, una buona volta, di avere il coraggio di scegliere sulla base di obiettivi e chiarezza di soluzioni, lasciando da parte le guerre di appartenenza e di posizioni per ottenere una presidenza o un posto nel consiglio direttivo. E queste guerre, alle quali non sono interessati soltanto i partiti e i politici, ma anche qualche Associazione ambientalista, sono state purtroppo già ingaggiate. È tempo di porre in essere una programmazione integrata, che sappia attuare quella che da anni alla Sorbona di Parigi hanno chiamato Ingegneria del Turismo. Attraverso il coinvolgimento degli Enti locali, espressioni politiche del territorio, si tratta di coniugare l’uso accorto e rispettoso delle risorse e delle sedimentazioni identitarie locali con la crescita e lo sviluppo socio-economico, soprattutto delle piccole comunità dell’entroterra. E le domande, quelle che un politico deve porsi, non possono partire se non dal dato di fatto degli insediamenti umani, perché rappresentano le condizioni e l’obiettivo dello sviluppo di un’Area. Questo dato, riferito al territorio del Parco, ci presenta un’area centrale la cui densità abitativa per superficie è circa la metà di quella costiera e di quella limitrofa che si snoda lungo l’autostrada, nelle quali vi sono “poli gravitazionali” a forte densità abitativa – Eboli, Sala Consilina, Capaccio Scalo, Agropoli – che fungono da veri e propri attrattori umani. L’area centrale sta diventando sempre più un deserto umano. Ai fini dello sviluppo, la desertificazione di quest’area è irreversibile? Il riequilibrio antropico delle tre aree non solo è condizione di sviluppo complessivo, ma è anche possibile se con urgenza, abbandonando la politica della contemplazione e del piccolo assistenzialismo di parte, si ripenserà a una rete infrastrutturale di base – non necessariamente fatta di strade, ponti e cemento, ancor meno di fantasiosi irrealizzabili sventramenti autostradali – che ammagli l’area centrale con le altre due; a una rete di trasporti interni, dedicata agli obiettivi residenziali e turistici a un tempo, che sappia collegare le potenziabili “vie del mare” con auspicabili “vie della montagna”, i “centri gravitazionali” periferici con i “centri minori”; a una pianificazione finalizzata a un processo di sviluppo quanto più possibile integrato e integrante di tutte le componenti economiche e sociali di un territorio. La futura gestione del Parco deve scaturire da questo obiettivo strategico: rivalutazione dei centri storici minori in funzione di albergo diffuso, un complessivo progetto di rinascita della ruralità cilentana, che connetta agricoltura, allevamento, turismo, cultura degli antichi saperi e mestieri, fattorie didattiche, artigianato, gastronomia, stile di vita e, soprattutto, servizi e accoglienza diffusa. Bisogna, insomma, muovere da una visione del Cilento interno quale Laboratorio di un Nuovo Umanesimo. Una gestione accademica, contemplativa o assistenziale, costituita solo sulla base di un curriculum o dell’appartenenza politica, non potrà mai promuovere una riconversione organica delle precondizioni infrastrutturali del territorio, idonee a risolvere la dispersione e l’isolamento delle sedimentazioni archeologiche ed ambientali, la frattura tra zone interne e zone costiere e dare sviluppo all’intera area. Esistono, da qualche parte, una chiarezza progettuale e una consapevolezza di obiettivi per una svolta che sia culturale ed economica a un tempo?

* Componente  SISTURaureliodimatteo@alice.it.