Vera contrizione necessaria per non andare all’inferno

Carlo Di Pietro

I peccati contro lo Spirito Santo sono “quei peccati che manifestano la sistematica opposizione a qualunque influsso della grazia, e questo comporta disprezzo e rifiuto di tutti gli aiuti offerti da Dio per la salvezza”. (cit. Amici Domenicani, v. contrizione).Vengono detti contro lo Spirito Santo perché l’opera della conversione e della santificazione è attribuita allo Spirito Santo. Sono sei:

– l’impugnazione della verità conosciuta;

– l’invidia della grazia altrui;

– la disperazione della salvezza;

– la presunzione di salvarsi senza merito;

– l’ostinazione nel peccato;

– l’impenitenza finale. Come dice S. Giovanni, “la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo”. Perciò l’impugnazione della verità conosciuta, e l’invidia della grazia altrui appartengono più alla bestemmia contro il Figlio dell’uomo che alla bestemmia contro lo Spirito Santo. (Summa Th. II-II, 14, q.2) S. Bernardo ha scritto, che “non volere obbedire è resistere allo Spirito Santo”. E la Glossa insegna, che “il pentimento simulato è una bestemmia contro lo Spirito Santo”. Anche lo scisma sembra opporsi direttamente allo Spirito Santo, dal quale dipende l’unità della Chiesa. (Ivi.) I doni di Dio (…) che allontanano dal peccato, secondo l’Aquinate, sono due: – Il primo è la conoscenza della verità: e contro di esso sta l’impugnazione della verità conosciuta, che consiste “nell’impugnare le verità conosciute della fede, per peccare con maggiore licenza” (… quello che fanno, purché – o poiché – ben informati, i reprobi, gli eretici, gli apostati, gli scismatici, gli atei … e chi probabilmente li fomenta o giustifica, anche mezzo stampa, ed anche non correggendo pubblicamente le eventuali false interpretazioni date o “incomprensioni” che comunque sono figlie dell’ambiguità);

– Il secondo è l’aiuto della grazia: e contro di esso sta l’invidia della grazia altrui, che consiste nel fatto che uno non solo invidia il fratello come persona, ma invidia la grazia di Dio che cresce nel mondo  (… quello che fanno, credo, anche i falsi profeti, probabilmente invidiosi di chi è in grazia di Dio, desiderosi di far corrompere anche i loro fratelli).

Da parte poi del peccato due sono le cose che, secondo il Dottore Angelico, possono trattenere l’uomo dalla colpa:

– La prima è il disordine e la bruttezza dell’atto, la cui considerazione suole indurre l’uomo a pentirsi del peccato commesso. E contro di essa abbiamo l’impenitenza, non nel senso di durata nel peccato fino alla morte, come sopra si è detto (infatti allora non sarebbe uno speciale peccato, bensì una circostanza del peccato), ma quale proposito di non pentirsi;

– La seconda cosa (che può trattenere dalla colpa) è la meschinità e la brevità del bene che uno cerca nel peccato, secondo le parole di S. Paolo: “E che frutto aveste delle cose di cui ora vi vergognate?”. E questa considerazione è fatta per indurre l’uomo a desistere dal peccato. Ma questo effetto viene eliminato dall’ostinazione, cioè dal fatto che un uomo stabilisce il suo proposito nell’adesione al peccato.

Di queste due cose si parla in quel passo di Geremia: “Non c’è nessuno che si muova a penitenza del suo peccato, e che dica: Che ho mai fatto? Tutti son rivolti a correre per il loro verso, come cavallo che va di carriera incontro alla battaglia”. (Ivi.) Cristo ha prodotto la grazia e la verità mediante i doni dello Spirito Santo, offerti da lui a tutti gli uomini. Non volere obbedire si riduce all’ostinazione; la simulazione del pentimento all’impenitenza; e lo scisma ricade nell’invidia della grazia altrui, dalla quale grazia sono compaginate le membra della Chiesa. (Ivi, IIª-IIae q. 14 a. 2 ad 3 ad 4)

La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna. Il sacro Concilio di Trento ha dichiarato non essere lecito a chi ha sulla coscienza un peccato mortale e può avvicinare un confessore, di ricevere la Comunione, anche se pentito nella maniera più profonda, prima di essersi purificato mediante la Confessione (sess. 13, cap. 7, can. 11). Poiché il popolo deve conoscere meglio di ogni altra cosa la materia di questo sacramento, si dovrà insegnare che esso differisce dagli altri soprattutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di naturale o di artificiale, della Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento (sess. 14, cap. 3 De Paenit., can. 4). Il sacramento della Penitenza (oggi “confessione” se si riesce a trovare un vero confessore), oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri sacramenti, contiene tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: “La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore  la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione” (Grat., 2, causa 33, q. 3, dist. 1, can. 40). Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto. (Dich. Cat.  Tridentino)

Ecco come definiscono la contrizione i Padri del Concilio di Trento: “La contrizione  un dolore dell’animo e una detestazione del peccato commesso, con il proposito di non più„ peccare per l’avvenire” (sess. 14, cap. 4). Parlando pi„ oltre della contrizione, aggiungono: “Questo atto prepara alla remissione dei peccati, purchéƒsia accompagnato dalla fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà‚ di fare quanto necessario per ben ricevere il sacramento della Penitenza”. Questa definizione fa ben comprendere ai fedeli che l’essenza della contrizione non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar vita, o nell’iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e soprattutto nel detestare ed espiare le colpe della vita passata. La contrizione è un atto della volontà‚ e sant’Agostino attesta che il dolore accompagna la penitenza, ma non è la penitenza stessa (Sermo 351, 1). I Padri Tridentini hanno espresso con il termine dolore  la detestazione e l’odio del peccato commesso, sia perchèƒ la Scrittura lo usa cos€ (dice David al Signore: “Fino a quando nell’anima mia proverà… affanni, tristezza nel cuore ogni momento?”) (Sal 12,3), sia perchéƒ il dolore nasce dalla contrizione in quella parte inferiore dell’anima che è sede delle passioni. Non a torto, pertanto, è stata definita la contrizione come un dolore, perché produce appunto il dolore; i penitenti, per esprimere meglio il loro dolore, usavano mutare le vesti, come si ricava dalle parole del Signore: “Guai a te, Corazin, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti presso di voi, già da tempo avrebbero far penitenza in cenere e cilicio” (Mt 11,21; Lc 10,13).

II dolore d’aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore; la misura della contrizione dev’essere la carità. Giova qui notare che la Scrittura adopera i medesimi termini per esprimere l’estensione della carità e della contrizione. Dice infatti della carità: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore” (Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27); della seconda il Signore dice per bocca del profeta: “Convenitevi con tutto il vostro cuore” (Gl 2,12).

Come Dio è il primo dei beni da amare, così il peccato è il primo e il maggiore dei mali da odiare. Quindi, la stessa ragione che ci obbliga a riconoscere che Dio deve essere sommamente amato, ci obbliga anche a portare sommo odio al peccato. Ora, che l’amore di Dio si debba anteporre a ogni altra cosa, sicché non sia lecito peccare neppure per conservare la vita, lo mostrano apertamente queste parole del Signore: “Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me” (Mt 10,37); “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà” (Mt 16,25; Mc 8,35).

Sarà utile ammonire i fedeli ed esortarli nella maniera più efficace a esprimere un particolare atto di contrizione per ogni peccato mortale, poiché dice Ezechia: “Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni miei, con l’amarezza dell’anima mia” (Is 38,15).

Da quanto abbiamo detto è facile dedurre le condizioni necessario per una vera contrizione:

– La prima condizione è l’odio e la detestazione di tutti i peccati commessi. Se ne detestassimo soltanto alcuni, la contrizione non sarebbe salutare, ma falsa e simulata, poiché scrive san Giacomo: “Chi osserva tutta la legge e in una sola cosa manca, trasgredisce tutta la legge” (Gc 2,10);

– La seconda è che la contrizione comprenda il proposito di confessarci e di fare la penitenza;

– La terza è che il penitente faccia il proposito fermo e sincero di riformare la sua vita, come insegna chiaramente il Profeta: “Se l’empio farà penitenza di tutti i peccati che ha commessi, custodirà tutti i miei precetti e osserverà il giudizio e la giustizia, vivrà; ne mi ricorderò più dei peccati che avrà commesso”. E più oltre: “Quando l’empio si allontanerà dall’empietà che ha commesso e osserverà il giudizio e la giustizia, darà la vita all’anima sua”. E più oltre ancora: “Convenitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità; così queste non vi torneranno a rovina. Gettate lungi da voi tutte le prevaricazioni in cui siete caduti e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo” (Ez 18,21ss).

La medesima cosa ha ordinato il Signore stesso dicendo all’adultera: “Va’ e non peccare più” (Gv 8,11) e al paralitico risanato nella piscina: “Ecco, sei risanato: non peccare più” (Gv 5,14).

Comanda il Tridentino ai preti e confessori (Dich. Cat.  Tridentino al n° 251) “Cercheranno infine i pastori d’ispirare nei fedeli un odio sommo contro il peccato, sia a motivo della sua immensa e vergognosa bruttezza, sia perché arreca gravissimi danni in quanto aliena da noi la benevolenza di Dio, da cui abbiamo ricevuti tanti beni e tanti maggiori ce ne ripromettiamo, mentre poi ci condanna alla morte eterna con i suoi acerbi tormenti senza fine.

Va ricordato che la Penitenza (oggi “confessione”) differisce dagli altri Sacramenti perché “nella Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione“, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento (sess. 14, cap. 3 De Paenit., can. 4). L’uomo, quindi, dovrà fare un esame di coscienza (l’ignoranza non scusa), dovrà essere contrito e dovrà “soddisfare” perché la soddisfazione è “l’integrale pagamento di ciò che è dovuto, poiché è soddisfacente ciò a cui nulla manca“. Esempio: ”Chi ha rubato, ormai non rubi più; lavori piuttosto con le sue mani per venire incontro alle necessità di chi soffre” (Ef 4,28).

Dal canto suo, il Sacerdote, ascoltando le confessioni dei fedeli, ha il compito di giudicare se veramente esiste in loro il pentimento richiesto per la valida assoluzione sacramentale; se questo manca,  non può concedere l’assoluzione e, se lo facesse lo stesso, commetterebbe un peccato grave di sacrilegio: il penitente pure peccherebbe gravemente. Può esserci assoluzione solo se c’è la volontà esplicita del penitente di non peccare più (il peccato prevede deliberato consenso e piena avvertenza).

Esempio: CjC 1917, Can. 2356. “Bigami, idest qui, obstante coniugali vinculo, aliud matrimonium, etsi tantum civile, ut aiunt, attentaverint, sunt ipso facto infames; et si, spreta Ordinarii monitione, in illicito contubernio persistant, pro diversa reatus gravitate excommunicentur vel personali interdicto plectantur“. (I bigami, cioè quelli che, nonostante l’impedimento del vincolo coniugale, abbiano tentato un altro matrimonio, sebbene soltanto civile, come dicono, sono per lo stesso fatto infami, e se, disprezzato l’ ammonimento dell’Ordinario persistano nell’illecito concubinaggio, secondo la diversa gravità del reato, siano scomunicati o siano puniti con un interdetto personale.)

Altro esempio: CjC 1917, Can. 855. “§ l. Arcendi sunt ab Eucharistia publice indigni, quales sunt excommunicati, interdicti manifestoque infames, nisi de eorum poenitentia et emendatione constet et publico scandalo prius satisfecerint“. “§ 2. Occultos vero peccatores, si occulte petant et eos non emendatos agnoverit, minister repellat; non autem, si publice petant et sine scandalo ipsos praeterire nequeat“. (Sono da respingere dalla Eucaristia i pubblicamente indegni, i quali sono : gli scomunicati ,gli interdetti e i manifestamente infami a meno che non risulti manifesto il loro pentimento e la loro correzione e non abbiano prima scontato la pena per il pubblico scandalo. Invero i peccatori che agiscono di nascosto, se di nascosto chiedano e il ministro non li avrà riconosciuti emendati, li respinga, invece se chiedono pubblicamente e senza scandalo non può trascurarli).

È scomunicato automaticamente: – chi ricorre all’aborto ottenendo l’effetto voluto e chi procura tale aborto; – chi è responsabile di apostasia, eresia e scisma; – l’appartenenza a logge massoniche; – ecc …

C’è un altro tipo di dolore, detto “imperfetto” che è l’attrizione. ”Il dolore imperfetto (attrizione) ci ottiene il perdono dei peccati quando è unito alla confessione“. (cit. Il mio libro di preghiere, CLS, Verrua Savoia)

E’ buona cosa comunque recitare ogni sera una preghiera o supplica a Dio affinché, in casi gravi, ci conceda la grazia della vera contrizione finale e non ci faccia perire improvvisamente. Ciò, ben inteso, deve comunque prevedere già nell’animo della persona un pentimento attuale, casomai anche recitando l’Atto di dolore. Si ricordi il lettore che comunque Dio è misericordioso ma giusto, quindi non permette che reprobi, scandalosi, peccatori contumaci, ecc … ricevano il “premio della vita eterna” che invece è riservato ai giusti. Dio non mente e non è ingiusto, quindi ognuno riceverà in base a ciò che ha dato, “sapendo che come ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore” (Col 3,24); il motivo – e non lo scopo – della ubbidienza del servo ideale è l’eredità; l’«eredità incorruttibile, immacolata» (1Pt 1,4); la «corona della giustizia» (2Tm 4,8); la «vita eterna» (Gv 6,47) .