Il partito sul territorio

Angelo Cennamo

“Il partito non è radicato sul territorio”. Quante volte l’avremo sentita questa frase da chi, analizzando la sconfitta del Pdl alle amministrative, ne ha evidenziato la scarsa attitudine a ramificarsi nel tessuto sociale delle città e delle Province italiane? Tante, e a ragion veduta. Che il popolo della libertà, alle elezioni locali, riscuota tradizionalmente meno successo rispetto alle politiche, è infatti un dato difficilmente confutabile. Una volta, per definire Forza Italia si soleva ricorrere alla plastica : un partito di plastica, si diceva. Poi, dal partito di plastica a quello liquido, il passo è diventato breve, anzi brevissimo. Tanto che oggi tutti si chiedono cosa sia il Pdl, se non l’incarnazione del suo stesso leader e fondatore, Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, per i suoi detrattori, è un padre padrone che impedisce alla destra di sopravvivere al proprio carisma e di investire su altre figure più giovani. In parte è vero, anche se la storia recente sembra volerci dire altro. Non più di sei mesi fa, infatti, Berlusconi il Pdl lo aveva praticamente abbandonato : voleva fare il padre nobile, andava dicendo. Salvo poi ritornare in campo, non appena si rese conto che nelle mani di Alfano la sua creatura stava precipitando in ogni sondaggio, provocando malumori e smobilitazioni. Erano i mesi, ricorderete, in cui una parte del partito invocava le primarie, suggerendo delle candidature giudicate in quel momento vincenti, ma  che nell’imminente futuro si sarebbero rivelate a dir poco inconsistenti ( basti vedere i risultati elettorali, alle politiche, della Meloni, e la debacle alle comunali di Roma del sindaco uscente, Alemanno). Difficile allora sostenere che il Pdl sia e possa essere qualcosa di diverso dall’uomo che lo ha concepito, nè si può pretendere di candidare in ogni Regione o Provincia un altro Berlusconi. Si obietterà : ma allora la sinistra come fa a vincerle, le amministrative? Che c’entra, quella del Pd ( già Ds, Pds e, prima ancora, Pci) è un’altra storia. La sinistra, il territorio, lo sa presidiare perchè ha nel dna la cultura del collettivismo, del comunitarismo, fa rete, come si dice oggi. L’approccio dei liberali con la politica è invece molto diverso : non amano riunirsi, aggregarsi, partecipare. Il liberale è, per sua natura, anarchico, individualista, e poco solidale. Il liberale, lo Stato, lo vede come un nemico da cui difendersi, più che un’Istituzione da preservare e alla quale dedicare del tempo e, soprattutto, del denaro. La conseguenza è che radicarsi sul territorio, per un partito “non di sinistra”, diventa più complicato e faticoso. Lo fu meno per i post missini di AN, il cui zoccolo duro si riconosceva nel “cameratismo” della destra sociale, che tante sedi aveva, spesso di sua proprietà perchè nessuno gliele fittava. Ma se i finiani di Fiuggi seppero conservare quel forte legame con i quartieri centrali e periferici di ogni città, non si può dire altrettanto dei loro cugini forzisti, più inclini all’individualismo “liquido” che all’osservanza degli statuti delle federazioni. Ecco spiegata allora la discrasia tra il dato nazionale, che ha visto molte volte primeggiare Berlusconi, e quello locale, dove il radicamento, la militanza attiva dei suoi coordinatori, segretari e loro vice, rappresenta, il più delle volte, solo una rottura di scatole.