Salerno: premiazione vincitori selezione regionale campana XXI Olimpiade e 1° Campionato Filosofia S.F.I.

Il Liceo Regina Margherita, dopo aver gareggiato con i Licei Classici regionali, si è felicemente affermato  conquistando il 3° posto al 1^ Campionato di Filosofia. Il giorno 28 Maggio ad Avellino, presso il Liceo Classico Pietro Colletta, alla presenza del Prefetto Dott. Umberto Guidato, del Ch.mo Prof. Aniello Montano, il Prof. Giuseppe Sasso, Presidente provinciale della S.F.I. ed altri membri  della commissione, Adriano Maciej Strzalkowski di V A è stato premiato vincitore del terzo posto  nella selezione regionale del Campionato  redigendo un saggio rispondente alla seguente traccia:“La virtù non ha padrone, secondo che la onori o la spregi, ciascuno ne avrà più o meno. La  responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile” (Platone, Repubblica, X, 617e). Quali virtù e quali valori occorrono per costruire uno spazio plurale in cui nessuno si senta escluso né rispetto al passato né  nella progettualità per il futuro? La  Commissione lo ha ritenuto “meritevole di menzione perché il lavoro è stato elaborato con originalità stilistica ed espressiva, sotto forma di dialogo”.Il saggio, in file, si può leggere sul sito della scuola, in “Chi siamo” sezione Progetti. Anche quest’anno la prof.ssa Rosa Annunziata  ha voluto tener fede alla tradizione e non mancare all’appuntamento della XXI Olimpiade e del 1° Campionato  Nazionale di Filosofia, volti a valorizzare le Eccellenze. L’anno scorso, la vittoria è stata sfiorata da Marisa Di Domenico, alunna di VA, la quale si è posizionata all’11° posto,  per aver svolto un elaborato originale impostando un’equazione  su ”I limiti della libertà”. Ammirati per quei prodigi di ingegno ed eloquenza dimostrati, ci congratuliamo con questi allievi del Liceo Regina Margherita. Complimenti giungono anche dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Salerno, tramite la Prof.ssa Clementina Cantillo.

<<La virtù non ha padrone; secondo chi la onori o la spregi, ciascuno ne avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile>> (Platone, Repubblica, X, 617e). Quali virtù e quali valori occorrono per costruire uno spazio plurale in cui nessuno si senta escluso né rispetto al passato né nella progettualità per il futuro?

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 La casa era vecchia e malandata. In quella valle isolata essa padroneggiava incontrastata. Era visibile da lontano: strane ossa tra loro incastrate costituivano la porta. Alcuni credevano che fossero i resti delle bestie a proteggere Cernunnos dai pericoli che misteriosi minacciavano la vita in quel luogo. Faceva caldo. Era ormai vicino il primo giorno di Agosto e l’antropomorfo essere dotato di corna di cervo si apprestava adaccendere il fuoco per cucinare i cavoli colti la mattina stessa. Non era solo. Efesto iniziava a desinare sbucciando con una lama la mela che aveva preso dal cestino anch’esso fatto di resti ossei. <<Ti sfido a pelare un frutto meglio di così!>> esclamò il dio della metallurgia al padrone di casa. <<Ricorda, caro fumaiolo,-rispose questi- il fatto che tu sappia abilmente rimuovere la buccia da questo pomo non è necessariamente prova del fatto che tu sia l’unico a saperlo fare>>. Cernunnos aveva sete. Prese un secchio colmo d’acqua raccolta alla Fonte di Talete e vi immerse una scodella che poi avvicinò cautamente alle labbra. L’arsura si placò subito mentre lui faceva scorrere il fluido giù per la gola. <<Sarà pure come affermi tu- disse Efesto- ma io non credo di essere superabile nell’arte del pelare gli oggetti>>. Cernunnos poco badava alle lodi con cui l’amico ostentava la sua bravura: era occupato a mescolare con dovizia il decotto di cui lui andava tanto fiero. Efesto, resosi conto della poca attenzione dell’altro, cercò di capire perché egli dedicava così tanta cura alla preparazione di una pietanza.<< Non sapevo che gli dèi etruschi amassero tanto cucinare>> esclamò quindi Efesto. Con un ghigno disinteressato l’essere dotato di corna tergiversò silenziosamente e, dopo aver tolto il decotto dalla fiamma ed averlo posto sul tavolo per impiattarlo, si accinse a rispondere.<<Sai, nell’arte culinaria, e in particolare nella preparazione di vegetali, credo di essere abbastanza dotato. Mi piace definirmi un maestro. Già, un maestro>>. Efesto, che nel frattempo aveva finito di mangiare la mela e aveva gettato il torsolo al serpente di Cernunnos, si fermò. Ci fu del silenzio. Poi un alito d’aria si mosse: il dio ellenico-latino iniziò a ridere sonoramente tanto che tutte le falangi animali appese al soffitto si mossero. <<Curioso! Davvero curioso! Assolutamente curioso!>> affermò al termine del ludico momento. <<Pochi istanti fa- continuò poi- tu hai ripreso me mentre mi esaltavo per la mia indubbia qualità di pelare e ora sei tu a cadere nell’errore da te criticato!>>. Cernunnos quindi decise di prendere uno sgabello e di sedersi di fronte al suo dialogante. Vide dalla finestra una civetta che solcava leggiadramente il cielo, così decise di bere un altro po’ d’acqua. Si accomodò quindi e portò le gambe sullo sgabello assumendo quasi una posizione fetale. <<Visse un uomo- esordì- dai posteri definito filosofo, ovvero “amante della sapienza”, che parlava di mansuetudine e di saggezza. Egli adorava gli uomini virtuosi che erano in grado di mostrarsi altresì con magnificenza e devozione alla giustizia>>. <<Bella storia.- disse Efesto- Ma come si collega alla mia mela e al tuo decotto?>>. <<Quest’uomo- continuò Cernunnos, quasi come se non avesse percepito l’interruzione dell’amico- parlava di virtù. Sai cos’è la virtù?>>. Efesto ebbe un attimo di esitazione. <<Beh…- esordì dopo un po’- io sono bravo a lavorare col ferro e col fuoco e a produrre armi e strumenti. Questa è una mia virtù>>. <<Ti sbagli>>, disse di risposta il dio etrusco, che si alzò ed indicò la sua fedele serpe. <<Lei- esclamò indicando il rettile- è capace di scovare le sue prede nel buio e di catturarle nella maniera più tacita possibile. Credi che essa sia virtuosa?>>. Efesto, sempre più confuso, convenne che bere un sorso d’acqua fosse la cosa giusta: prese una coppa e prelevò dal medesimo catino il giusto necessario per soddisfare il suo desiderio. In lontananza si udì un corvo gracchiare. <<Assolutamente no. Non credo che la tua serpe possa essere considerata virtuosa per queste ragioni>> rispose quindi dopo aver svuotato la coppa. <<Esattamente! – esclamò animato Cernunnos- Esattamente! Il sapere fare non corrisponde a virtù; il saper fare corrisponde a talento. Tu hai talento nel forgiare utensili mentre la bestia che ora si è accovacciata vicino al camino ha talento nella caccia. La virtù, come ho detto prima, non è saper fare bensì è sapere cosa, come e perché fare>>. << La saggezza raccomandata da Aristotele, l’uomo di cui ti ho parlato prima,- continuò- doveva permettere all’uomo di scegliere perché agire e se agire, ma soprattutto le modalità con cui muoversi. “La responsabilità è di chi sceglie”, diceva Platone, maestro di Aristotele. Quando tu ti elogi spontaneamente per la tua abilità dimostri di essere, almeno in quel momento, non saggio nel sapere cosa fare di questa tua capacità. Ecco la differenza che c’è tra me e te: tu hai cantato la tua bravura per il gusto di farlo,io ti ho riferito il mio pensiero dopo che tu me lo avevi chiesto. La mia saggezza mi ha fatto capire che era giusto che io ti rispondessi sinceramente perché così avrei soddisfatto la tua curiosità>>.

Cernunnos dovette prendersi una pausa per rinfrescarsi la gola, così bevve un lungo sorso d’acqua. Il catino ormai era quasi vuoto. Un uccello che pareva essere un albatro si destreggiò poco lontano dalla casa isolata e si fece notare dai due, intenti a discutere di virtù.

<<Gli uomini che vennero dopo Aristotele – riprese Cernunnos- si mostrarono devoti ad un altro Dio ben diverso da noi. Un uomo conosciuto come Agostino convertì la sua vita al culto di questo Dio dopo aver incontrato un certo Ambrogio, dagli uomini definito “santo”. Quest’ultimo ebbe la saggezza di condurre Agostino sulla via che lo avrebbe poi nel futuro reso felice. La virtù saggia di Ambrogio non fu però sterile: alla sua virtù seguì poi quella del suo discepolo che si classificò come virtù religiosa. Agostino perseguiva la carità, l’unica virtù che poteva guidare, secondo il suo pensiero, l’uomo alla solidarietà e alla retta via. Tutti erano da lui considerati uguali, tutti i singoli venivano concepiti come una molteplicità unica. Prendi questo cestino: è colmo di mele. Ogni mela è diversa l’una dall’altra per la forma o per il colore, ma sono tutte mele. Un gruppo di mele costituito da singole mele>>. <<Ci fu un tempo, se ben ricordi- aggiunse quindi il mezzo cervo- in cui gli uomini decisero di dividersi in classi, l’una da considerare migliore dell’altra. In loro non vi era né saggezza, né carità: il passato corrispondeva ad un’utopia ormai dimenticata e il futuro delle classi inferiori, limitate e private dei diritti, corrispondeva al loro arido presente. Fu in questa epoca che alcuni uomini iniziarono a filosofare, a “fareamicizia con la sapienza”: parlarono di virtù e per primi si misero in discussione>>. <<Credo fermamente, amico mio – intese Cernunnos. Che la filosofia non metta ordine nell’animo di chi la esercita ma che essa la scombussoli ancor di più. La sapienza porta consapevolezza delle condizioni e quella dell’uomo non è certo una realtà fatta di infinite possibilità. La sapienza è un valore che permette di raggiungere e di comprendere la virtù e la virtù, d’altro canto, implica il riconoscimento dell’uguaglianza fra esseri della stessa natura. Bisogna quindi rispettare se stessi, gli altri e tutto ciò che costituisce la nostrarealtà>>.

Efesto, che era evidentemente rapito dall’argomentazione che gli era stata proposta, decise di inziare a placare la fame che iniziava a manifestarsi prepotentemente: prese dal suo fagotto una forma di formaggio e un pezzo di carne ed iniziò a masticare.<<Vuoi?>> disse all’amico porgendogli una parte di ciò che aveva preso.<<No, grazie. Sai che non mangio carne>> rispose questi.<<Ancora vegetariano?>> esclamò quindi l’esperto di artefatti.<<Non sono vegetariano, – spiegò l’altro come se quella fosse la centesima volta in cui si trovava a puntualizzare lo stesso concetto. Sono amante della vita. Mangiando un fagiano o una lepre rischierei di ingerire qualcuno dei miei devoti>>. <<Ancora con la questione della trasmigrazione delle anime?>>, chiese Efesto con fare sbalordito. <<Certamente>> rispose lui. <<Mai sentito parlare del mito di Er?>>. <<Credo di sì… Fu recitato dallo stesso Platone di cui mi hai parlato prima, giusto?>>, replicò Efesto. <<La virtù non ha padrone; secondo chi la onori o la spregi, ciascuno ne avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile>> (Platone, Repubblica , X, 617e). Quali virtù e quali valori occorrono per costruire uno spazio plurale in cui nessuno di senta escluso né rispetto al passato né nella progettualità per il futuro? La casa era vecchia e malandata. In quella valle isolata essa padroneggiava incontrastata. Era visibile da lontano: strane ossa tra loro incastrate costituivano la porta. Alcuni credevano che fossero i resti delle bestie a proteggere Cernunnos dai pericoli che misteriosi minacciavano la vita in quel luogo. Faceva caldo. Era ormai vicino il primo giorno di Agosto e l’antropomorfo essere dotato di corna di cervo si apprestava ad accendere il fuoco per cucinare i cavoli colti la mattina stessa. Non era solo. Efesto iniziava a desinare sbucciando con una lama la mela che aveva preso dal cestino anch’esso fatto di resti ossei. <<Ti sfido a pelare un frutto meglio di così!>> esclamò il dio della metallurgia al padrone di casa. <<Ricorda, caro fumaiolo,-rispose questi- il fatto che tu sappia abilmente rimuovere la buccia da questo pomo non è necessariamente prova del fatto che tu sia l’unico a saperlo fare>>. Cernunnos aveva sete. Prese un secchio colmo d’acqua raccolta alla Fonte di Talete e vi immerse una scodella che poi avvicinò cautamente alle labbra. L’arsura si placò subito mentre lui faceva scorrere il fluido giù per la gola. <<Sarà pure come affermi tu- disse Efesto- ma io non credo di essere superabile nell’arte del pelare gli oggetti>>. Cernunnos poco badava alle lodi con cui l’amico ostentava la sua bravura: era occupato a mescolare con dovizia il decotto di cui lui andava tanto fiero. Efesto, resosi conto della poca attenzione dell’altro, cercò di capire perché egli dedicava così tanta cura alla preparazione di una pietanza. << Non sapevo che gli dèi etruschi amassero tanto cucinare>> esclamò quindi Efesto. Con un ghigno disinteressato l’essere dotato di corna tergiversò silenziosamente e, dopo aver tolto il decotto dalla fiamma ed averlo posto sul tavolo per impiattarlo, si accinse a rispondere. <<Sai, nell’arte culinaria, e in particolare nella preparazione di vegetali, credo di essere abbastanza dotato. Mi piace definirmi un maestro. Già, un maestro>>. Efesto, che nel frattempo aveva finito di mangiare la mela e aveva gettato il torsolo al serpente di Cernunnos, si fermò. Ci fu del silenzio. Poi un alito d’aria si mosse: il dio ellenico-latino iniziò a ridere sonoramente tanto che tutte le falangi animali appese al soffitto si mossero. <<Curioso! Davvero curioso! Assolutamente curioso!>> affermò al termine del ludico momento. <<Pochi istanti fa- continuò poi- tu hai ripreso me mentre mi esaltavo per la mia indubbia qualità di pelare e ora sei tu a cadere nell’errore da te criticato!>>. Cernunnos quindi decise di prendere uno sgabello e di sedersi di fronte al suo dialogante. Vide dalla finestra una civetta che solcava leggiadramente il cielo, così decise di bere un altro po’ d’acqua. Si accomodò quindi e portò le gambe sullo sgabello assumendo quasi una posizione fetale. <<Visse un uomo- esordì- dai posteri definito filosofo, ovvero “amante della sapienza”, che parlava di mansuetudine e di saggezza. Egli adorava gli uomini virtuosi che erano in grado di mostrarsi altresì con magnificenza e devozione alla giustizia>>. <<Bella storia.- disse Efesto- Ma come si collega alla mia mela e al tuo decotto?>>. <<Quest’uomo- continuò Cernunnos, quasi come se non avesse percepito l’interruzione dell’amico- parlava di virtù. Sai cos’è la virtù?>>. Efesto ebbe un attimo di esitazione. <<Beh…- esordì dopo un po’- io sono bravo a lavorare col ferro e col fuoco e a produrre armi e strumenti. Questa è una mia virtù>>.<<Ti sbagli>>, disse di risposta il dio etrusco, che si alzò ed indicò la sua fedele serpe. <<Lei- esclamò indicando il rettile- è capace di scovare le sue prede nel buio e di catturarle nella maniera più tacita possibile. Credi che essa sia virtuosa?>>. Efesto, sempre più confuso, convenne che bere un sorso d’acqua fosse la cosa giusta: prese una coppa e prelevò dal medesimo catino il giusto necessario per soddisfare il suo desiderio. In lontananza si udì un corvo gracchiare. <<Assolutamente no. Non credo che la tua serpe possa essere considerata virtuosa per queste ragioni>> rispose quindi dopo aver svuotato la coppa. <<Esattamente! – esclamò animato Cernunnos- Esattamente! Il sapere fare non corrisponde a virtù; il saper fare corrisponde a talento. Tu hai talento nel forgiare utensili mentre la bestia che ora si è accovacciata vicino al camino ha talento nella caccia. La virtù, come ho detto prima, non è saper fare bensì è sapere cosa, come e perché fare>>. << La saggezza raccomandata da Aristotele, l’uomo di cui ti ho parlato prima,- continuò- doveva permettere all’uomo di scegliere perché agire e se agire, ma soprattutto le modalità con cui muoversi. “La responsabilità è di chi sceglie”, diceva Platone, maestro di Aristotele. Quando tu ti elogi spontaneamente per la tua abilità dimostri di essere, almeno in quel momento, non saggio nel sapere cosa fare di questa tua capacità. Ecco la differenza che c’è tra me e te: tu hai cantato la tua bravura per il gusto di farlo,io ti ho riferito il mio pensiero dopo che tu me lo avevi chiesto. La mia saggezza mi ha fatto capire che era giusto che io ti rispondessi sinceramente perché così avrei soddisfatto la tua curiosità>>. Cernunnos dovette prendersi una pausa per rinfrescarsi la gola, così bevve un lungo sorso d’acqua. Il catino ormai era quasi vuoto. Un uccello che pareva essere un albatro si destreggiò poco lontano dalla casa isolata e si fece notare dai due, intenti a discutere di virtù. <<Gli uomini che vennero dopo Aristotele – riprese Cernunnos- si mostrarono devoti ad un altro Dio ben diverso da noi. Un uomo conosciuto come Agostino convertì la sua vita al culto di questo Dio dopo aver incontrato un certo Ambrogio, dagli uomini definito “santo”. Quest’ultimo ebbe la saggezza di condurre Agostino sulla via che lo avrebbe poi nel futuro reso felice. La virtù saggia di Ambrogio non fu però sterile: alla sua virtù seguì poi quella del suo discepolo che si classificò come virtù religiosa. Agostino perseguiva la carità, l’unica virtù che poteva guidare, secondo il suo pensiero, l’uomo alla solidarietà e alla retta via. Tutti erano da lui considerati uguali, tutti i singoli venivano concepiti come una molteplicità unica. Prendi questo cestino: è colmo di mele. Ogni mela è diversa l’una dall’altra per la forma o per il colore, ma sono tutte mele. Un gruppo di mele costituito da singole mele>>. <<Ci fu un tempo, se ben ricordi- aggiunse quindi il mezzo cervo- in cui gli uomini decisero di dividersi in classi, l’una da considerare migliore dell’altra. In loro non vi era né saggezza, né carità: il passato corrispondeva ad un’utopia ormai dimenticata e il futuro delle classi inferiori, limitate e private dei diritti, corrispondeva al loro arido presente. Fu in questa epoca che alcuni uomini iniziarono a filosofare, a “fare amicizia con la sapienza”: parlarono di virtù e per primi si misero in discussione>>. <<Credo fermamente, amico mio – intese Cernunnos. Che la filosofia non metta ordine nell’animo di chi la esercita ma che essa la scombussoli ancor di più. La sapienza porta consapevolezza delle condizioni e quella dell’uomo non è certo una realtà fatta di infinite possibilità. La sapienza è un valore che permette di raggiungere e di comprendere la virtù e la virtù, d’altro canto, implica il riconoscimento dell’uguaglianza fra esseri della stessa natura. Bisogna quindi rispettare se stessi, gli altri e tutto ciò che costituisce la nostra realtà>>. Efesto, che era evidentemente rapito dall’argomentazione che gli era stata proposta, decise di inziare a placare la fame che iniziava a manifestarsi prepotentemente: prese dal suo fagotto una forma di formaggio e un pezzo di carne ed iniziò a masticare. <<Vuoi?>> disse all’amico porgendogli una parte di ciò che aveva preso. <<No, grazie. Sai che non mangio carne>> rispose questi. <<Ancora vegetariano?>> esclamò quindi l’esperto di artefatti. <<Non sono vegetariano, – spiegò l’altro come se quella fosse la centesima volta in cui si trovava a puntualizzare lo stesso concetto. Sono amante della vita. Mangiando un fagiano o una lepre rischierei di ingerire qualcuno dei miei devoti>>. <<Ancora con la questione della trasmigrazione delle anime?>>, chiese Efesto con fare sbalordito. <<Certamente>> rispose lui. <<Mai sentito parlare del mito di Er?>><<Credo di sì… Fu recitato dallo stesso Platone di cui mi hai parlato prima, giusto?>>, replicò Efesto.<<Si, proprio lui>>, convenne Cernunnos.<<Vedi,- continuò- io mi reputo un essere dotato di intelligenza e quindi capace di raggiungere la sapienza. Raggiungere la sapienza, per quanto detto prima, permette di fare propri atteggiamenti virtuosi. La Mia virtù, considerato il mio credo, mi porta a considerare che mangiare animali potrebbe potenzialmente condurmi a non rispettare chi secondo me il rispetto lo merita. Come vedi ciò che è giusto per me non può esserlo per te o, in senso più latom ciò che è comprensibile per me può non esserlo per te>>. <<Penso di aver capito>>, convenne Efesto. <<Stai dicendo che la mia sapienza si è formata in una realtà diversa dalla tua e che per questo le mie virtù potrebbero essere diverse dalle tue. Infatti io giudico virtuoso un uomo coraggioso e che lotta per la patria mentre tu, da dio protettore degli animali quale sei, giudichi dotato di virtù chi rispetta con consapevolezza l’ambiente in cui vive>>. <<Si, hai ben compreso ciò che intendevo dire>>, rispose quindi Cernunnos. <<Preservare la massa considerandola unica- riflettè Efesto- è quindi un’impresa ardua poiché la concezione di giustizia può variare con frequenza altissima da popolo in popolo. Come si può perciò evitare di stigmatizzare o emarginare nelle idee e nelle opportunità ogni singola entità?>>. <<La speranza è da riporre nell’unificazione dei popoli>>, considerò l’etrusco. <<Solo questa può costituire la soluzione alla disgregazione e alla disuguaglianza esistenziale>>. Il decotto aveva assorbito tutta l’acqua e nel corso della discussione di era freddato. <<Tocca riscaldarlo!>>, esclamò il cuoco. Prese così il catino da cui prima aveva accinto per bere e versò tutta l’acqua della Fonte di Talete nel pentolone che riposizionò sul fuoco. L’acqua era finita. Una strana atmosfera calò nella casa vecchia e malandata. Un bacio gelato coinvolse i due dèi che sobbalzarono nel vedere un pellicano della marea nera posarsi dinanzi alla porta. Tutto parve morire. L’aridità delle ossa preannunciò la fine, la fine di tutto. Non c’era più acqua. La piramide pitagorica incisa sul tavolo scomparve. Il serpente divenne rigido. Efesto respirava con difficoltà mentre gli occhi seccavano. Il fuoco si spense. Tutto parve morire. Non c’era più calore. Il simulacro del mandala sbiadì. Efesto divenne rigido e Cernunnos smise di vivere.

Adriano Maciej Strzalkowski  5^A